Il racconto domenicale
di Simona Maria Frigerio
Torna il Festival organizzato da Armunia ma, al posto di una presentazione che è, platealmente, una carrellata di titoli di spettacoli che nessuno ha ancora visto in quanto debutti, vi regaliamo un racconto nato a Castello Pasquini, che è stata la sede per oltre vent’anni di Inequilibrio, oltre ovviamente al Programma completo della manifestazione.
Ohhh, Felix darling, some of her fans still don’t think she goes to the bathroom!*
Tutti gli scrittori adorano una domanda. Se la concupiscono dalla prima pagina che vergano – a penna, macchina da scrivere o computer – fino a quel the end che non suggella un vissero e felici e contenti quanto presagisce i futuri attacchi di colite spastica, le ansie notturne, le paturnie con gli amici e i rospi indigeribili che caratterizzeranno i mesi o gli anni successivi in cerca di un agente, un editore, un critico disposto a leggere davvero e poi a recensire il sospirato libro. Almeno fino all’agognato debutto nel salotto buono di mamma Rai dove il solito presentatore che non ha mai aperto un libro, e tanto meno il tuo, leggerà quello che qualcun altro (che, magari, è andato oltre le note di copertina) gli ha suggerito di chiederti.
Gli autori si immaginano quella scena, nello studio televisivo falso quanto una moneta da tre euro, e la concupiscono con invereconda tenacia. Il pubblico addomesticato ormai non ci fa paura – come cantava il buon Guccini. E la domanda che anch’io mi sono coltivata come una pianticella del mio orto psicologico, irrorata con buone dosi di sogni a occhi aperti, finalmente giunge: «Il suo libro è autobiografico?». La sfilza delle risposte, tutte personali ma invariabilmente false, va da: “È tutto vero” a: “È tutto inventato” – passando attraverso: “C’è qualcosa di me in ogni racconto” a: “Lo scrittore è un vampiro che succhia l’esistenza di chi gli passa accanto”. Quest’ultima, ossia quella della sanguisuga (per non scadere nel pornosoft à la Anne Rice), l’ammissione in assoluto più vicina alla realtà.
Ma per essere originale, io ho deciso di scriverlo davvero un racconto autobiografico e anticipare sul tempo il presentatore porgendogli, prima ancora che mi faccia la fatidica domanda, una risposta adeguata: questo è l’unico racconto completamente autentico e sinceramente autobiografico. O quasi… L’esperienza di una critica teatrale alle prese con un tranquillo weekend di paura in quel di Inequilibrio, il festival più radical chic della Costa degli Etruschi.
Mi alzai scostando le lenzuola con attenzione: avevo trascorso la notte cercando di mantenere l’aria ferma perché a ogni ventata la puzza di fogna che proveniva dal bagno mi ammorbava l’anima. Castiglioncello, amena località balneare toscana, rinomata in ambiente teatrale fin dai tempi di Pirandello e Marta Abba, ha un problema con il sistema fognario pari solo a quello di Hua Hin – altrettanto rinomata località balneare in quel della Thailandia. E ogni anno, quando mi invitano, al piacere per gli spettacoli che vedrò, di giorno, si unisce il terrore per il puzzo che dovrò sopportare, la notte. Ma sia mai che un critico si lamenti per simili minuzie di fronte all’ineguagliabile privilegio di ritrovarsi in un ambiente a metà strada tra una soap opera e un film di Wes Craven (ossia un horror condito con una buona dose d’ironia).
Le cose quella mattina non potevano andare peggio. Mi ero dimenticata a casa i calzoni lunghi di mio marito (pure lui critico, un po’ cooptato e un po’ costretto): e la temperatura che, fino al giorno prima, viaggiava sui 35°C afa costante, era scesa repentinamente nella notte – un regalino che solo la Toscana porge con tanta disinvoltura, tanto a Natale quanto in pieno luglio. Basta un acquazzone, a volte, e si passa dalla piena estate alla tormenta in stile La cosa di Carpenter (ne sarà riprova quella signora con il sacchetto in testa che vedrò qualche settimana più tardi, su una splendida terrazza affacciata sul mare, in attesa di un Benvenuti, Comico fatto di sangue).
Guardando fuori dalla finestra decisi di andare comunque e a ogni costo in spiaggia: mica si può stare a Castiglioncello e languire in una stanza d’albergo evitando di muovere l’aria… Ma prima, era doveroso un giro per i quattro (o forse cinque, ma difficile usare le due mani per contarli) negozi dell’amena località balneare, in cerca di un pantalone lungo per la serata. “Ci sono i saldi”, pensai tra me e me, “e qualcosa a una cifra abbordabile per un critico autofinanziato si dovrebbe pur trovare…”. Purtroppo, la speranza sarà anche l’ultima a morire, ma quel giorno tirò in fretta le cuoia. Le alternative rimaste erano tre: spendere per un pantalone quanto per un intero guardaroba estivo (naturalmente tutto dipende se si è un critico con testata solvente alle spalle “o meno”); andare al mercato e optare per una seconda mano stazzonata a cinque euro e poi spenderne quindici per una tintoria e sperare di non prendersi, comunque, la peste bubbonica; o fare gli sportivi e fingere di non sentire freddo. Mio marito mi guardò con una faccia che sapeva di terza, anche perché rientriamo nella categoria “o meno”, e con una nuvoletta sulla testa della serie: “e poi sono io l’aterosclerotico…”.
Terminata la perlustrazione pro shopping, eccoci pronti per la spiaggia – un po’ alla Fantozzi: con la nuvoletta nera che ci seguiva insistente. Il vento soffiava abbastanza forte da spazzare il cielo rendendolo terso, mentre il sole non era abbastanza caldo per abbronzare – ma per ustionare le pelli più delicate, quello sì (MC ci mostrerà le ginocchia, quella sera: rosse come due peperoni).
Il pranzo a metà pomeriggio – per un critico che si rispetti – è sempre frugale: infilato tra la recensione d’obbligo e la doccia doverosa. Doccia, anche questa in stile Thai. Ossia un rubinetto che eruttava acqua in mezzo al bagno, con un buco per lo scarico. Ovviamente, l’acqua andava da ogni parte: la fetente non si accontentava di creare un rivolino ben educato che finisse diritto nel buco, ma schizzava dal water al lavabo. Come in Thailandia si poteva solo arrendersi all’idea di tenere i piedi a mollo anche per fare pipì. Ma diversamente dalla Thailandia, non ci sarebbero stati 40°C ad asciugarli, appena si fosse usciti in strada in flip flop (anche perché le infradito, in un festival che si rispetti, sono decisamente out).
Le amiche nella stanza di fronte, nel frattempo, riparavano lo sciacquone: MC si arrampicava in stile Jet Li appoggiandosi a una parete coi piedi e all’altra con le spalle, fino ad arrivare alla cassetta per sbloccarla. TG saliva sul letto e, non sapendo che fare, aggiustava una lampadina. Io guardavo le foto che mi stavano inviando via whatsapp (da un paio di metri di distanza in linea d’aria), e mi domandavo se qualcuno l’avrebbe creduta se l’avessi raccontata. E d’un tratto la lampadina si accese a me, ma in testa: non potevo raccontarla a nessuno! Un critico in un festival teatrale deve essere radical chic almeno quanto i suoi ospiti. Che figura ci avrei fatto a discorrere dello sciacquone di MC con il teatrante alle prese col debutto al Piccolo, o con l’arzillo critico che si pavoneggiava per i click che aveva mietuto la sua ultima intervista?
Quando arrivammo a Castello Pasquini, quella sera, si poteva dire che fossimo una bella squadra: TG indossava con classe uno dei suoi completini che la rendono supersexy – anche se non so come facesse a non congelarsi tutta; MC portava un paio di jeans sul comodo andante e si lamentava per le ginocchia ustionate; mio marito sfoggiava un bel paio di bermuda adatti alla stagione; e io fingevo falsa sicurezza con un vestitino scollato, tenendomi di scorta maglioncino ricamato da sera… e felpa da alta montagna! Mi veniva da ridere guardandoci: eravamo decisamente un’accozzaglia disparata – loro non lo avrebbero mai saputo, ma noi ci stavamo divertendo.
La serata iniziò subito bene. I nostri biglietti erano su un treno che viaggiava dalla biglietteria all’addetta stampa e viceversa. E nessuno riusciva a fermarlo. Distribuiti quelli che avevamo acchiappato al volo, ne mancava sempre uno per me. “Come si fa a imbucarsi a una festa di matrimonio?”, mi chiesi. E mi risposi in puro stile hollywoodiano: “Si è amici dello sposo con quelli della sposa e viceversa”. Ossia, si indossa la faccia più tosta che si possiede e si tira dritto. In generale le maschere, soprattutto se giovani, magari stagisti e sicuramente alle prime armi, si dribblano bene ostentando falsa sicurezza – della serie: “Voi non sapete chi sono…”. Mi misi la maschera e feci il mio show. Vedendo che all’interno della tensostruttura l’addetta stampa della Compagnia richiamava la mia attenzione sventolando la cartellina con il materiale dello spettacolo, finsi di non notare la summenzionata maschera, e mi diressi con passo veloce verso M. In quel momento mi sentivo come il protagonista di Chariots of fire, godendomi l’agognata meta con un passo atletico che, nella mia testa, guadagnava in scioltezza. Era il mio personale momento di gloria, la mia fuga per la vittoria – al rallenty. Un trionfo sulle musiche di Vangelis… Se non fosse stato per il solito critico arzillo, in vena goliardica, che iniziò a emettere gridolini per attirare l’attenzione della maschera sul fatto che: «La Frigerio entra senza biglietto!». Con tutta la consumata esperienza del velocista al fotofinish, invece di guardarmi indietro, feci finta di non sentire la bagarre che si stava creando alle mie spalle e allungai il passo per tuffarmi letteralmente tra i sedili delle prime file, sgusciando poi di gradone in gradone fino a un’altezza di sicurezza. Ovviamente l’arzillo critico con piglio goliardico mi avrebbe seguita per sedermisi accanto, godendosi l’indecisione delle maschere, dubbiose se chiedermi davvero chi fossi, prendermi per il bavero che non avevo e buttarmi fuori, o lasciar perdere – dato che nessuno le avrebbe ricompensate per tanto zelo.
Ma le serate in un festival non finiscono mai con il sipario che cala sull’applauso – d’obbligo. Perché il vero spettacolo si mette in scena prima e dopo. C’è l’arrivo del potente di turno con la corte che si forma ad attenderlo e poi a vezzeggiarlo, tra svolazzi di apprezzamenti fasulli e battute da serata degli Oscar (a Cinecittà). C’è l’incontro tra critici, con una profusione di baci e complimenti che vanno dall’accorgersi del tocco di classe delle scarpe color giallo ocra accompagnate al pantalone blu cobalto; all’essere abbastanza donne da offrire il proprio pile da alta montagna al collega maschio che rabbrividisce nel suo golfino di cachemire – e che, ovviamente, rifiuta perché non in tinta; fino alla collega milanese, ignara delle polari temperature toscane di luglio che, per ripararsi, si fa prestare dall’organizzazione un cuscino 60×60 e se lo porta in giro per tenersi calda la pancia. L’allegra fiera delle vanità scorreva intorno ai miei sensi come un carosello, una sarabanda, una giostra diretta da un Mangiafuoco con uno strano senso dell’umorismo. In quei giorni sarebbe dovuto andare in scena un Lucignolo, ma ci ritrovammo con un Lucifero.
L’altra grande sfida per il povero critico in un festival è l’ottimizzazione del tempo, il che significa riuscire a estorcere interviste agli artisti presenti e che si sta inseguendo, magari, da un anno. Ora, se il critico è di quelli stipendiati e con rimborso spese, l’affaire non è così urgente. Si può sempre incontrarsi in un altrove più tranquillo – a spese dell’editore. Ma per il critico autofinanziato diventa impellente trasformarsi nel peggior incubo di ogni donna – traslato, leggasi attore. Quella sera, al termine degli spettacoli, mi calai nei panni dello stalker. MC e TG mi fecero da spalla, piazzandosi davanti all’unica via di fuga per il malcapitato, con TG che si dava un po’ di rossetto in attesa del dopo festival (ossia di una birra in un barettino, finalmente lontani dai riflettori) e MC che sghignazzava in stile Muttley. Mentre mio marito, dopo avermi avvertita della presenza del teatrante nel bagno, dove si stava struccando, si piazzava dall’altro lato rispetto alle ragazze. E l’amica milanese, tenendo stretto il suo cuscino e pur non capendo bene cosa stesse accadendo, chiudeva le retrovie a una possibile ritirata sul palco. A quel punto, mi piazzai proprio davanti al bagno degli uomini con un piglio da O.K. Corral, per estorcere ora e luogo dell’intervista. Nemmeno si fosse trattato dello scoop con Assad… Ma si sa: questo è lo show business baby, mica giornalismo d’assalto.
(Racconto inserito nella Raccolta ©Vagabondaggi, 2017. Vietata la riproduzione anche parziale, tutti i diritti riservati. *La citazione è tratta da S.O.B., film culto di Blake Edwards).
Venerdì, 4 settembre 2020