Coltan, cobalto, oro, diamanti, rame e terre fertili: la “maledizione della ricchezza” congolese
di Simona Maria Frigerio
Prendiamo a prestito la definizione del giornalista Maurizio Giuliano, per raccontarvi qualcosa di più sulla Repubblica Democratica del Congo, un luogo che potrebbe essere il Paese di Bengodi grazie alla prosperità della sua terra (sia a livello estrattivo sia potenzialmente agricolo) e che, al contrario, nelle mani dei signori della guerra e delle multinazionali occidentali, è l’ennesimo inferno coperto da un silenzio assordante.
Tutti presi da un virus che sta portando al collasso le nostre economie, mentre i giovani che si infettano, in Italia, non presentano alcun sintomo (o quasi) e, anzi, dovrebbero essere invitati a continuare a contagiarsi così che la popolazione sana crei una larga fascia di immunizzati per il prossimo autunno-inverno, ci si dimentica che là fuori – aldilà di questo opulento occidente bramoso di autoconservarsi ab aeterno, anche sacrificando il futuro delle nuove generazioni e colpevolizzandole solo perché vogliono divertirsi, fare un viaggio all’estero o cenare e bersi una birra con gli amici; ebbene, appena fuori dai nostri confini il mondo continua a girare e anche gli interessi economici delle multinazionali estrattive, informatiche e delle nuove tecnologie.
Risparmio energetico o sfruttamento umano?
Le battaglie degli ultimi anni per un’economia green hanno puntato più sui prodotti (o quasi esclusivamente) che non sui processi. Un esempio, l’enfasi per le automobili elettriche, per le quali restano due problemi enormi da risolvere. Il primo, lo smaltimento delle batterie che contengono diversi elementi pericolosi per la salute umana e animale – quali litio, cobalto e rame (le stime attuali, estremamente volatili, danno un recupero delle stesse che va dal 5 al 50%); il secondo, il reperimento delle materie prime, e soprattutto del litio, che ha causato il recente golpe in Bolivia. Circa quest’ultimo fatto, Elon Musk, l’idolo dei green in quanto fondatore della Tesla, ha twittato – in risposta al messaggio di un altro utente che denunciava non essere nell’interesse delle persone che “il governo Usa organizzi un colpo di Stato contro Evo Morales in Bolivia affinché tu possa ottenere il litio da quel Paese” – queste esatte parole: “We will coup whoever we want” (ossia, “Colpiremo chiunque vogliamo”). E del resto i servizi segreti statunitensi e varie multinazionali sono stati dietro ai golpe di diversi Paesi sudamericani: l’Operazione Condor è ormai fatto storico acquisito e ha coinvolto Cile, Argentina, Bolivia, Brasile, Perù, Paraguay e Uruguay (in anni e con modalità diverse).
Il coltan (mix di columbite e tantalite), come il litio, è una risorsa indispensabile per le nuove tecnologie e il risparmio energetico. Eccellente conduttore e resistente alle alte temperature, il tantalio è utilizzato nella costruzione di condensatori passivi e serve per ottimizzare la durata delle batterie. Rarissimo, presente in superficie (facile, quindi, da scavare), si stima che l’80% delle sue riserve siano in Congo – in miniere controllate da gruppi armati che utilizzano i ricavi della vendita per finanziare le proprie azioni di guerriglia.
In un clima tribale, dove le multinazionali estere fomentano le divisioni per ottenere le risorse utili alle nostre economie, l’Unicef denuncia dati allarmanti: “Il 70% dei circa 70 milioni di abitanti della Repubblica Democratica del Congo vive al di sotto della soglia di povertà; il tasso di mortalità 0-5 anni è di 199 su 1.000 nati vivi. In termini assoluti, si stima che ogni anno nel Paese muoiano 554.000 bambini sotto i 5 anni”. Tradotto in parole semplici: in un unico Stato, tutti gli anni, si registra un numero di vittime, solamente tra i bambini, maggiore di quello dovuto al Covid-19, nell’intero pianeta, in sei mesi di circolazione del virus e, nella maggioranza dei casi, per persone ultrasettantacinquenni con patologie a carico. Del resto, è difficile sfamarsi se nelle miniere di coltan si guadagnano circa 3/4 dollari al giorno (o anche meno), per 12 ore filate di lavoro, sette giorni la settimana; e se sei bambino ricevi solamente un paio di dollari.
Per capire la discrepanza tra prezzo finale della materia prima e costo effettivo del lavoro, basterà citare quanto riporta https://nena-news.it: “Nel 2000 con l’uscita di Sony PlayStation 2 si registrava una corsa all’oro nero. La domanda di tantalio aumentò facendo oscillare i prezzi del coltan da 35 dollari a libbra (poco meno di mezzo chilo, n.d.g.) fino a quasi 400 dollari, mentre ai lavoratori nelle miniere veniva pagato 0,18 centesimi al chilo”.
Dopo l’estrazione, i sacchi da mezzo quintale sono affidati a lavoratori che li trasportano in spalla per 80 km, nella foresta, con “un viaggio che dura due giorni” (dati Amka Onlus). “Il coltan viene poi parzialmente raffinato e imbarcato su aerei che lo esportano illegalmente all’estero (Rwanda, Uganda), oppure direttamente venduto ai compratori stranieri presenti nel Paese… ma la cosa incredibile è la mancanza di controlli, come nell’aeroporto di Goma, città di confine, dove la merce entra illegalmente in Rwanda, sotto gli occhi dei militari, delle forze dell’ordine e dei Caschi Blu dell’Onu” (sempre Amka Onlus).
Quando gettiamo il nostro cellulare perché non è abbastanza performante, magari pensiamoci.
I rifugiati
Le faide tra milizie armate hanno causato anche sfollati e richiedenti asilo. Secondo l’UNHCR (l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei Rifugiati): “Le persone costrette a fuggire dai ripetuti conflitti nella RDC, rappresentano la popolazione di sfollati interni di più vaste dimensioni di tutto il continente africano, nonché il 10% del totale globale”. Ovvero, circa 5 milioni di individui.
In effetti, oltre alle comunità costrette a dislocarsi da una regione (soprattutto nell’area orientale) all’altra, all’interno del Paese d’origine, l’RDC conta circa 900 mila richiedenti asilo, ospitati negli Stati confinanti – dato che è una favola tutta europea che i rifugiati africani approdino in massa sulle nostre coste. In marzo (prima che la pandemia diventasse un freno per le economie occidentali e, quindi, anche per gli aiuti allo sviluppo), sempre l’UNHCR aveva lanciato un appello urgente: “per raccogliere 621 milioni di dollari da destinare al sostegno dei rifugiati dalla Repubblica Democratica del Congo nei Paesi confinanti nonché delle comunità che li accolgono”; e aggiungeva: “Attualmente l’Uganda accoglie la maggior parte dei rifugiati congolesi, quasi 400.000 persone. Altri si trovano in Burundi (oltre 84.000), Rwanda e Tanzania (più di 75.000 persone in ciascuno Stato), Zambia (50.000), Angola (23.000) e Repubblica del Congo (21.000)”. E c’è chi si lamenta per qualche barcone con poche centinaia di esseri umani.
D’altro canto, i vicini non hanno solamente un volto umanitario e non è detto che i loro fini siano esclusivamente nobili. Secondo un articolo pubblicato nel 2016 da http://earthriot.altervista.org/: “Un report ha rivelato che il vicino esercito del Rwanda ha guadagnato 250 milioni di dollari statunitensi in meno di 18 mesi vendendo coltan, nonostante il Paese non ne sia particolarmente ricco. Un contrabbando in cui sarebbero implicate anche le forze armate di Uganda e Burundi”.
Non solo coltan
Nel mentre, il cobalto scavato dai bambini congolesi finisce nei prodotti della Apple, di Microsoft, ovviamente della Tesla e della Samsung (come denuncia CBS News).
Mark Dummett, direttore del programma Imprese, Sicurezza e Diritti Umani di Amnesty International, circa le miniere in Katanga (dove si estraggono anche il rame e il nichel, dai quali si ricava pure il cobalto), racconta: “Quando ci siamo recati per la prima volta nelle miniere, nel 2015, abbiamo visto uomini, donne e bambini lavorare persino senza l’attrezzatura di protezione più essenziale, come guanti e mascherine per il volto. I minatori ci hanno riferito delle patologie di cui soffrivano, tra le quali tosse, dolore ai polmoni e infezioni alle vie urinarie. Gli abitanti di un paese in cui siamo stati ci hanno mostrato l’acqua della sorgente del fiume locale, che usavano per bere, contaminata dallo scarico dei rifiuti di un impianto di lavorazione dei minerali”. E conclude con un’affermazione tanto lapalissiana quanto utopica: “L’industria estrattiva della Repubblica Democratica del Congo dovrebbe portare benefici anche alle comunità locali, non solo alle potenti multinazionali”.
Secondo un interessante articolo di Le Monde Diplomatique – pubblicato a luglio 2020 – il problema maggiore però sarebbe un altro: “Gli analisti della UBS, hanno rilevato che un mondo ove il parco autovetture sia elettrico al 100% esigerebbe un aumento del 1.928% della produzione mondiale di metallo blu (+2.898% per il litio e +655% per le terre rare). Una missione impossibile a meno di trasformare delle intere regioni in complessi minerari con un costo ambientale molto elevato” (t.d.g.). Il che equivarrebbe a dire che per non produrre ulteriormente gas serra (le autovetture, secondo Greenpeace, nel 2018 erano responsabili del 9% delle emissioni globali), dovremmo distruggere intere regioni ed ecosistemi (pensiamo al Parco Nazionale di Kahuzi Biega, casa dei gorilla di montagna) – e non solamente nella Repubblica Democratica del Congo.
Restiamo Umani
Con questo motto/monito Vittorio Arrigoni chiudeva ogni suo articolo (e mi salutò: https://www.persinsala.it/web/approfondimento/vittorio-vive-1053.html).
Prendendolo a prestito – non sappiamo quanto consapevolmente – come titolo per la sua marcia, un altro attivista, John Mpaliza (fuggito dalla RDC di Mobutu quasi vent’anni fa), il 20 giugno 2019, in concomitanza con la Giornata mondiale del rifugiato (di cui ha scritto la collega Laura Sestini, http://www.theblackcoffee.eu/20-giugno-giornata-mondiale-del-rifugiato/), è partito da Trento per percorrere in lungo e in largo il nostro Belpaese: «Bisogna far capire alla gente che gli xenofobi razzisti non sono la maggioranza, forse stanno cercando di diventarlo, ed è questo che noi dobbiamo cercare di arginare, facendoci vedere, uscendo per strada e sedendoci a confrontarci, per capire cosa fare» (dichiarazione ripresa da Nigrizia.it).
Per quattro mesi Mpaliza ha camminato, solo o accompagnato per alcuni tratti da quella società civile che ha condiviso mezzo e fine ideologico, toccando anche località-simbolo, quali Lampedusa (costantemente alle cronache per gli sbarchi dei migranti) e Rosarno, in Calabria – dove, nel 2010, vi fu una rivolta di braccianti agricoli immigrati di vasta portata e, oggi, si respira la medesima aria di sovraffollamento e mancanza di servizi igienici sia nella tendopoli ministeriale sia nei casali abbandonati, e occupati, della zona; oltre che di sfruttamento del lavoro, a causa del caporalato e della pervicace disattenzione della politica (con le istituzioni della Piana di Gioia Tauro spesso commissariate per infiltrazione mafiosa: qui si parla di ‘ndrangheta). Ultima tappa Roma e l’incontro con Papa Francesco il 23 ottobre.
“È da vent’anni che il popolo Congolese viene massacrato. Più di otto milioni di vittime e migliaia di violenze sulle donne. Un vero e proprio genocidio”, questo il J’accuse di John Mpalize. Il green deve essere per forza striato di rosso?
18 agosto 2020
In copertina: I Monti Rwenzori. Foto di Jørgen Christian Wind Nielsen da Pixabay.