Indagini – su eroi, codardi e sentimenti
di Simona Maria Frigerio
Anche l’ultimo sabato di luglio, a Sansepolcro, è all’insegna del teatro grazie al Festival ideato da Luca Ricci e Lucia Franchi.
Si inizia alle 17.50 con Troia City, la verità sul caso Aléxandros, per la regia di Lino Musella, testo e interpretazione di Antonio Piccolo, musiche in scena di Marco Vidino. L’Iliade omerica e una tra le tragedie perdute di Euripide si fondono in un profondo discorso sull’identità messo in scena attraverso il linguaggio della detective story, con tanto di colpo di scena finale, agnizione tragica e whodunit? – ossia il ‘chi ha commesso il delitto?’ del giallo classico rivisitato in chiave psicologica (ma altresì sociopolitica, se la domanda su chi uccise l’amato da Patroclo è: ‘lo straccione prode o il nobile pavido?’). La sovrapposizione di temi, linguaggi, generi e meccanismi interpretativi parrebbe pretenziosa ma, al contrario, la mirabile fusione che si compie in scena rende godibile lo spettacolo dalla prima all’ultima parola (di un testo insieme poetico e intrigante).
Il mito, come sempre, affonda le sue radici nell’immaginario collettivo e, così facendo, disvela il nostro animo con maggior forza di qualsivoglia denuncia, con tutti i suoi limiti e quell’intimo dualismo che connota la specie umana – sempre in precario equilibrio tra generosità ed egoismi, pusillanimità e coraggio.
A inquadrare con pulizia i molteplici piani interpretativi e della narrazione una scena minimal con pochi elementi, come la sabbia, che rimandano all’altrettanto apprezzabile nettezza di The Night Writer(monologo di grande pregio interpretato recentemente dallo stesso Musella), e alcuni oggetti scenici (di Paola Castrignanò) simbolicamente pregnanti – quali i frammenti di carta bruciata che chiudono il cerchio, memoria della tragedia perduta, dell’incendio della biblioteca di Alessandria ma altresì della profezia dell’oracolo e perfino delle fiamme che arsero al suolo Troia. Ogni segno ha la sua necessità, come significante e come significato. L’oggetto che, se inquadrato, doveva servire al procedere della narr-azione (Alfred Hitchcock, maestro del thriller, docet), è lezione che qui si applica al materiale e all’immateriale (dalla scena al testo) in una fusione di un equilibrio raro.
Qualche spazio in più per le musiche – soprattutto con sonorità della tradizione greca – renderebbe il tutto quasi perfetto; laddove è il quasi a contare perché il teatro si compie sempre nel qui e ora e nello scambio autentico tra attore e spettatore, dal vivo (pandemia o meno permettendo) – e, quindi, ogni replica resta un’esperienza unica e irripetibile.
A seguire Un po’ di più – di e con Zoé Bernabéu e Lorenzo Covello – che avevamo già applaudito in autunno a Intransito 2019, la rassegna biennale di teatro under 35 promossa dal Comune di Genova e organizzata da Teatro Akropolis, Associazione La Chascona e Officine Papage.
Teatro di figura, giocoleria, danza, pantomima, equilibrismo, canto a cappella, recitazione, poesia e un tocco di magia – il tutto, come nel precedente spettacolo, fuso con mano leggera e grande proprietà di mezzi e tecniche. Un piccolo gioiello che indaga sui fragili equilibri del rapporto di coppia attraverso una pluralità di discipline che hanno al centro il corpo del performer e la sua capacità espressiva, che si rivela nella scelta di ogni gesto, posizione, gioco di destrezza – che pare facile solamente perché l’abilità di Zoé e Lorenzo così lo fanno apparire. Ma attenzione: non è solamente di nouveau cirque che stiamo parlando perché qui, come ad esempio nei lavori di Jeanne Mordoj (di cui rammentiamo un mirabile Eloge du poil visto a Teatro a Corte, uno tra i festival più belli dell’Italia teatrale oggi sostituito con il baraccone nazional-popolare dei personaggi televisivi o dei comici adatti a tutte le occasioni), si usano alcuni mezzi della sperimentazione circense per creare una narr-azione a 360 gradi teatrale.
In chiusura di serata ci si reca a Santa Chiara. Quest’anno le regole per la pandemia hanno favorito gli spettacoli sotto le stelle e i vari chiostri utilizzati, da Santa Chiara, appunto, a San Francesco fino al cortile delle Laudi, hanno incorniciato perfettamente l’atmosfera di socialità e compartecipazione ritrovate (pur nel distanziamento interpersonale), con buona pace di chi immaginava il futuro come azzeramento della necessità – insieme umana e primaria – di riunirsi, ritrovarsi, confrontarsi e celebrare il rito laico del teatro.
Al termine della serata, dicevamo, i Menoventi con L’incidente è chiuso, prima tappa del progetto/spettacolo Il defunto odiava i pettegolezzi, tratto dal libro omonimo di Serena Vitale. Come sempre, alla regia, Gianni Farina. Sul palco Consuelo Battiston, la detective/‘cimice’/forse alter egodell’autrice; Federica Garavaglia nei panni dell’ultima fiamma del poeta, Veronika Polonskaja, timida moglie atterrita dai sensi di colpa (più verso il marito che verso l’amante) nel 1930 e donna liberata e indipendente nel ‘38; e Mauro Milone nelle vesti di un esagitato, pseudo-ossessivo maschio con velleità poetiche che dovrebbe essere il geniale Majakovskij, qui ridotto a una frustrata controfigura di Konstantìn Gavrìlovič Treplev (il fallito del Gabbiano di Čechov, che chiuderà la sua vita con un suicidio altrettanto inspiegabile).
Ora, a prescindere che ridurre lo spleen di Majakovskij, la sua profonda angoscia per il tradimento degli ideali rivoluzionari, in una faccenda a metà strada tra patemi adolescenziali (da ‘Mi telefoni o no?’ à laNannini) e comportamenti machisti da femminicida borderline, lascia perplessi (ma siamo di fronte a un work in progress e la rotta potrebbe ancora, secondo noi, raddrizzarsi), ciò che meno convince è l’incapacità di fondere linguaggi e generi (al contrario di quanto avevamo visto nei precedenti lavori).
La detective, interpretata da Battiston (che rimanda – non si sa quanto volontariamente – all’iconografia degli scienziati della Cimice, anche nella versione di Serena Sinigaglia per il Piccolo di Milano), con quel suo linguaggio di rime in stile ‘cuore/amore’, che dovrebbe essere emanazione del poeta cubofuturista (o forse della sua vena sarcastica?) – il quale aveva tagliato i ponti con stilemi e forme poetiche del passato – stride con la recitazione naturalista da Teatro d’Arte di Garavaglia. Il gioco tutto intellettuale appare nella sua autoreferenzialità da eruditi della scena ma non convince nella restituzione per il pubblico.
Funziona, al contrario (sebbene lo sfasamento e il perturbante che avevano reso unico L’uomo della sabbia paiano lontani), la ripetizione del suicidio, visto e agito da diversi punti di vista e, nel complesso (nonostante alla fine si sfilacci un po’), l’interpretazione di Garavaglia.
Majakovskij, a noi, piace ricordarlo per il suo afflato rivoluzionario – in poesia come in politica, e nella prassi di vita e lavoro: il poeta che entrò in fabbrica, che urlò le sue poesie quasi trent’anni prima di Ginsberg, che trascinò folle e visse e morì per un ideale – che non era certo sposare un’attrice alle prime armi, forse malata di protagonismo.
Gli spettacoli sono andati in scena a Kilowatt Festival 2020:
Sansepolcro, varie location
sabato 25 luglio, ore 17.50
Teatro della Misericordia
Teatro in Fabula presenta:
Troia City, la verità sul caso Aléxandros
ore 21.55
Chiostro di San Francesco
Bernabéu – Covello presentano:
Un po’ di più
ore 23.00
Chiostro di Santa Chiara
Menoventi presentano:
L’incidente è chiuso
Pubblicato (con minime variazioni) su TheBlackCoffeee.eu, il 25 luglio 2020
In copertina: Bernabéu Covello in Un po’ di più (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di Kilowatt Festival 2020)