… nell’anno distopico dello Stato di Bananas
di Simona Maria Frigerio
E venne il tempo della peste. Non quella nera e nemmeno quella dei gay… Neppure un’influenza per i giovani, a dire il vero, e poco di più di uno sternuto per il Terzo Mondo flagellato dalla malaria. Ma in quell’anno arrivò la peste per i vecchi del Primo Mondo, quelli tenuti in vita dall’opulenza di una società plastificata e da una medicina sostenuta da pozioni per qualsiasi malanno, come ai tempi del dottor Balanzone e dell’elisir di lunga vita. Una società vecchia e grassa che s’illudeva non solamente di essersi vaccinata contro la morte ma persino di restare eternamente giovane – come la strega di Biancaneve. E per farlo, occorreva fagocitare gli Hänsel e Gretel multicolori, che nascevano oltre le Colonne d’Ercole, là dove il ricco Occidente depredava, un tempo, oro e diamanti, ma nel nostro futuro distopico, preferiva rimpinzarsi, come Jabba, di litio (tanto da fomentare un colpo di Stato in Bolivia) e coltan (per il quale riportò la schiavitù in Congo).
In quel tempo, nonostante i giovani e i bambini stessero benissimo, un organismo internazionale finanziato da un ex imprenditore, decise di chiamarli untori (almeno per qualche tempo) e, affinché non contagiassero i loro nonnini, gli si impedì di andare a scuola dove avrebbero frequentato i loro coetanei, rinchiudendoli in casa con le mamme – che persero il posto di lavoro e tornarono al loro ruolo di ‘angeli del focolare’. Ruolo nobile, esaltato da strombazzate mediatiche e dai pensierini della sera di un ministro mascherato col tricolore (ma non era vilipendio alla bandiera usarla impropriamente?).
Nello Stato di Bananas intanto bisognava stringere le maglie delle libertà civili e, per farlo, occorreva gridare al lupo al lupo più forte che mai. Untori divennero i runner solitari (che fino a pochi giorni prima non si sapeva nemmeno che esistessero) e le vecchiette nei boschi – in cerca del lupo come Cappuccetto Rosso nella pubblicità di una marca di cellulari.
Il virus nel frattempo si trasformò – grazie a una propaganda martellante – in un nemico intelligente e, quindi, subdolo, che poteva volare, restare sospeso a mezz’aria, appiccicarsi ai vestiti, appostarsi proditoriamente nascosto dal buio, diventare invisibile e fare l’altalena (come i bambini sul confine messicano) sospeso nelle goccioline di saliva – che poi, perse nel vento, percorrevano migliaia di miglia a meno di non restare impigliate nello smog e, allora, occorreva imporre il coprifuoco perché, si sa, di notte i virus sono più pericolosi.
Bisognò perfino proibire gli incontri, e i cittadini di Bananas festeggiarono Pasqua e Liberazione (non ricordando da chi o cosa), nascosti sotto gli ombrelloni e le tende parasole, come carbonari alla macchia che preparavano salamelle alla griglia per amici e parenti, invece della rivoluzione. Mentre i cieli si riempivano di droni, elicotteri e presentatrici televisive con le mani insaponate a caccia di bambini felici e trasgressori indefessi – senza tema di ridicolo o di carenza di benzina.
Ma non bastava. Non poteva bastare. Il Grande Dittatore, spalleggiato dai suoi Governatori, sapeva che se la paura si fosse affievolita, se la minaccia fosse apparsa meno spaventosa, qualcuno si sarebbe accorto di aver perso il posto di lavoro, qualcun altro l’azienda o la casa, e qualche altro ancora un bene più impalpabile e non quantificabile, denominato libertà (con corollario di libero arbitrio, libertà di parola e manifestazione, di movimento e di cura – insomma, tutti quegli optional che quando c’era il Muro di Berlino parevano indispensabili).
Nel frattempo, alcuni cari folletti che avevano portato oggetti superflui come le mutande ai cittadini di Bananas (che non potevano più acquistarle nei super-funghi magici) ed erano stati per settimane osannati dai ministri in poemi epici, si scoprirono pure loro untori. Ma non bastò neppure questo. E allora si decise, dato che il teatro, qualche volta, non faceva ridere – come piaceva al Grande Dittatore – ma poteva instillare dubbi (com’era capitato con Paolini e Vacis per il Vajont o quel certo Sarti con La nave fantasma), di dichiarare che gli attori di teatro fossero più contagiosi di quelli del cinema e che dovessero recitare solo su una Piattaforma di Stato, che non vedeva nessuno, i monologhi scritti direttamente dai Governatori – invidiosi di tutti quelli che GD sciorinava alla cittadinanza a emittenti unite.
I ricoveri coatti e la deportazione, oltreché per i matti e i migranti, divennero misure consone per gli individui in quarantena, i recalcitranti che volevano restarsene nel proprio letto con la tachipirina o portare il cane a pisciare sotto casa anche con 37.5 (dopo una vita spesa a farsi dare degli assenteisti se cercavano di mettersi in malattia con 41). E siccome i cittadini continuavano a essere perlopiù solidali ma diventavano ogni giorno più poveri, si aumentarono le multe per chi proteggeva chi volesse restarsene a morire a casa propria, o non voleva vaccinarsi. E si preferirono le vene ostruite al rischio di andare da un medico a farsi prescrivere l’eparina. L’ostracismo e la persecuzione, i patentini e i controlli crearono un clima mefitico che corroborò il virus e il terrore, meglio che ai tempi di Robespierre, e alla fine chi pensava di essere malato si asserragliava in casa e non chiamava più nessuno – per timore di essere separato dai familiari o che questi dovessero subire il confino.
Si seppellirono i morti in silenzio – banditi già da tempo funerali e manifestazioni, si usarono boschi e giardini. Purtroppo, però, il Grande Dittatore, nel frattempo, aveva deciso di cementificare l’intero Stato di Bananas e che i lavori fossero portati avanti da parenti, amici e conoscenti. Così divenne sempre più difficile trovare terreno molle per i cadaveri, visto il disboscamento massiccio, e si ricorse a cani e condor importati.
Arrivò il giorno in cui GD, al contrario degli altri Capi di Stato, pensò di autoincoronarsi, come Napoleone, e dichiarare lo Stato d’Emergenza Perenne. Andò però a una manifestazione anti-fascista indossando una mascherina – ovviamente nera – e, sempre per dare un colpo al cerchio e uno alla botte (o forse perché leggermente schizofrenico), permise ai suoi Governatori di mettere la stella rosa (il giallo era inflazionato e il triangolo non andava più di moda) indosso a tutti quelli che si ostinavano a non farsi vaccinare e che dovevano andare in giro con un’App fissata in fronte – con lo scotch – che bippava ogniqualvolta si avvicinavano a un cittadino col patentino vaccinale a posto.
Ma i cittadini di Bananas non si accorsero subito di ciò che stava accadendo. Gli impiegati che lavoravano da casa, soprattutto quelli pubblici, si godettero una lunga estate di vacanza – dato che passare fascicoli era considerato più pericoloso che servire pizze. Gli insegnanti, non tutti ma molti, erano già in vacanza da mesi. E a loro si aggiunsero i cassintegrati, e quelli che erano riusciti a compilare i moduli per l’obolo ferie o il monopattino elettrico. E in un’orgia di sole plaudirono alla bella stagione, al mare e ai monti ritrovati, alle salamelle grigliate sotto gli ombrelloni per la canicola agostana e non per sfuggire all’occhio dei droni.
Finché non arrivò l’inverno del nostro scontento… Ma quella è un’altra storia. E come in questa, tutti i personaggi sono frutto della fantasia e qualsiasi riferimento a persone e fatti reali è da considerarsi puramente casuale e non trova alcun fondamento nella realtà. O, come chiedeva Puck: “If we shadows have offended, / Think but this, and all is mended, / That you have but slumber’d here / While these visions did appear”.
Venerdì, 24 luglio 2020
In copertina: Hieronymus Bosch, particolare tratto da una stampa de La nave dei Folli (1494 circa). Foto di Simona Maria Frigerio.