L’immaginazione al potere
di Simona Maria Frigerio
Mercoledì 15 luglio, l’ora del crepuscolo tra i campi delle Ariette. Declivi e noccioli, storie di cinghiali e senso della proprietà privata: «Come gliela spieghi a un cinghiale?». Ritrovarsi alle Ariette è sempre un piacere perché è un piacere ascoltare due teste pensanti come Paola Berselli e Stefano Pasquini. Questa sera, poi, si aggiunge il racconto di Catherine Zambon, attrice e scrittrice francese di chiare origini italiane, che – interrogata sul futuro prossimo – trasla il mondo distopico presente in un universo di paure fin troppo attuali. Temi importanti quelli che Zambon affronta e Berselli re-cita, accompagnata da una versione al femminile di Bridge over troubled water (mai come in questi tempi) o una ruggente Janis Joplin.
Il fluire delle parole riverbera nella natura che ci circonda: lo specchiarsi del teatro di narrazione in questo scenario ha un che della magica perfezione di un quadro multisensoriale, tratteggiato dai suoni e dai rumori ma anche dai profumi che ci circondano.
Temi – scrivevamo – importanti, quelli affrontati da Zambon, ben conscia della deriva totalitaria che stiamo imboccando (con accenni di fantapolitica – sempre meno fantasy – da V per Vendetta); del sacrificio di una generazione di giovani a favore dei vecchi (impostazione che non potrà che portare alla distruzione della specie, in questo caso umana); del terrore per la diversità (anche biologica); dell’inaridimento egoista che conduce a un progressivo disimpegno (risuonano a sottotesto i versi di Martin Niemöller: “Quando i nazisti presero i comunisti, / io non dissi nulla / perché non ero comunista…“).
Tanti i rivoli di pensiero che scorrono dolcemente tra le colline o si inabissano tra gli anfratti naturali ai bordi dei campi mietuti. Al termine, non a caso, è tempo di dibattito, come in quei marcusiani anni post-68. Peccato che nei pochi interventi sentiti sia emersa, al contrario, una riluttanza nei giovani ad assumersi responsabilità, addirittura il terrore di uscire dai binari e rischiare – come se la loro esistenza fosse preordinata dall’alto – tentando nuove strade; o ribellarsi a quanto prescritto non fosse intrinseco alla gioventù. Come se rivoluzione e immaginazione, che sono poi sinonimi a vent’anni (e che forse saranno entrambe sconfitte ma dalla vita), non appartenessero al loro DNA – nato già vecchio.
Di fronte al j’accuse di Zambon c’è chi non si capacita della lucida visione distopica da lei proposta e pensa ci sia posto per tutti in questo nostro mondo (ignaro forse di quanto sta accadendo proprio in questi giorni sulle coste calabre, dove sembra impossibile trovare un posto in ospedali ormai vuoti per qualche migrante positivo al Covid-19 e asintomatico).
Pensando ai figli rinchiusi in casa e affidati alle cure di genitori che dovrebbero andare al lavoro e invece si dibattono tra schede, spiegazioni e compiti, fa piacere ascoltare l’insegnante felice di aver potuto passare alcuni mesi senza far niente (sebbene retribuito), anzi con lo Stato che glielo imponeva, salvo poi ricordarsi che, sì, c’era anche la didattica a distanza (che, però, non deve aver inciso troppo sui tempi di ozio forzato e felice).
E ancora, il padre estatico di fronte ai cieli non più solcati da aerei (mentre qualcuno, tra il pubblico, gli ricordava che bastavano droni ed elicotteri – ben più pericolosi eticamente parlando), che racconta di aver additato alla figlia quella limpidezza – di fronte alla quale, la figlia rispondeva, però, “di averla già vista“. E noi non aggiungeremo che la Conferenza sul clima, nel frattempo, è saltata a data da destinarsi e che, per assicurare a un Occidente vecchio – che credeva di essersi vaccinato contro la morte – di starsene in panciolle a fissare il cielo, l’Africa senza più gli aiuti allo sviluppo sta morendo di malaria e di Aids.
Ma nell’Africa Subsahariana sono proprio i giovani a morire nella nostra sazia indifferenza. E sarà l’Africa a pagare per la nostra illusione di eternità: saranno le sue genti, quelle sulle quali si sperimenteranno i vaccini per un coronavirus che, a loro, fa poco o nulla perché a settant’anni non ci arrivano e il diabete di tipo 2 non sanno certo cos’è, dato che difficilmente diventano obesi.
E saremo forse complottisti, noi che il futuro lo vediamo distopico, ma non più tardi dell’11 aprile 2020: “il Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, dichiarava che l’Africa non sarebbe stata un banco di prova per nessun vaccino contro il virus SARS-CoV-2” (Nena News). Al contrario. Laddove il virus non ha flagellato ma mancano le condizioni sanitarie e socio-economiche per affrontare sperimentazioni in sicurezza, oggi partono i primi test su uno tra i vaccini allo studio. Proprio lì, in Sudafrica – supportati dai fondi della Bill and Melinda Gates Foundation – che, con l’uscita degli Stati Uniti dai donatori dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, diventerà il primo sponsor dell’OMS, la quale, è bene ricordarlo, nel 2017 destinava già l’80% dei fondi ai progetti voluti dagli stessi donatori (https://www.agi.it/estero/news/2020-04-16/oms-finanziatori-sanita-8347992/).
Zambon, come le Ariette, dimostra quel senso di preveggenza che anima mistici e teatranti. Forse, in autunno, anche il pubblico, che è sempre un po’ indietro rispetto agli artisti, smetterà di crogiolarsi al sole e si renderà conto dell’attualità dei versi di Martin Niemöller.
Lo spettacolo continua:
Teatro delle Ariette
via Rio Marzatore, 2781
Valsamoggia (BO)
mercoledì 22 e 29 luglio 2020, ore 20.30
E riapparvero gli animali
testo Catherine Zambon
traduzione e regia Paola Berselli e Stefano Pasquini
con Paola Berselli
Territori da Cucire 2020
con il sostegno di Comune di Valsamoggia e Regione Emilia-Romagna
in collaborazione con Fondazione Rocca dei Bentivoglio
Venerdì, 17 luglio 2020
In copertina: Valsamoggia, tra vigneti e cielo. Foto di Simona Maria Frigerio (vietata la riproduzione).