Le radici oscure del peso della farfalla
di Simona Maria Frigerio
L’anoressia nervosa colpisce per il 90% le donne, soprattutto nella fascia d’età tra i 15 e i 19 anni – anche se altri definiscono a maggiore incidenza il lasso tra i 14 e i 18 anni. E, negli ultimi tempi, si vede affiorare oltre la trentina. Spesso è associata a stati di depressione e/o ansia. Tra i disturbi alimentari è il più grave in quanto può portare direttamente alla morte per denutrizione, anche se in una percentuale di casi bassa (giungendo, a periodi, a un 5% se vi si ricomprendono i suicidi). E infine colpisce soprattutto l’opulento mondo occidentale all’inseguimento di una perfezione fisica spesso associata al sottopeso cadaverico di indossatrici e di altri stereotipi femminili da società dei consumi – anche se ultimamente il fenomeno sembra essersi allargato all’Estremo Oriente (forse banalizzando: insieme alla moda di farsi occidentalizzare la forma degli occhi); mentre i primi casi in letteratura risalgono ai secoli scorsi e le prime diagnosi all’Ottocento.
Epoca, quest’ultima, in cui l’ideale estetico non era certamente la magrezza estrema e in cui le teorie psicanalitiche cominciavano a giocare un ruolo fondamentale nella definizione di salute; sebbene Freud rispetto a questa, come ad altre patologie, prendesse abbagli dovuti anche ai suoi pregiudizi maschilisti – figlio anche lui di un periodo storico e di una temperie culturale. Non a caso, forse, il primo termine per definire questa patologia fu anoressia isterica, coniato dal medico francese Charles Lasègue nel 1870 – essendo l’isteria caratteristica essenziale di qualunque donna non volesse rientrare in un ordine gerarchico, familiare e sociale che non le apparteneva.
Oltre i numeri, le persone
Questi i dati e le cifre in breve. Ma quali sono le ragioni e le esperienze di chi vive o ha vissuto l’anoressia? Partiamo spazzando via un luogo comune. Come il/la tossicodipendente, anche l’anoressica (useremo il femminile perché, in genere, sono le donne a esserne interessate) sta bene nella propria condizione, non ritiene di avere un problema e non vuole essere aiutata.
Quando l’anoressica riesce a controllare il proprio corpo al punto da non sentire la necessità di mangiare o, sentendola, riesce a controllarla, è felice come una gabbianella che abbia finalmente spiccato il volo. Il controllo è infatti una caratteristica basilare di chi si ammala di anoressia. Non potendo controllare l’ambiente esterno, soprattutto in epoca post-adolescenziale (quando il corpo ma anche le relazioni con gli altri, dai genitori a possibili primi partner, si modificano in maniera indipendente dalla propria volontà), l’anoressica inibisce questo processo e i cambiamenti che non accetta – nel proprio corpo e nella propria esistenza – con il controllo sempre più maniacale del cibo.
Il controllo di quanto si mangia ha diverse componenti di autogratificazione. Non è solamente un modo per restare o diventare magre così da corrispondere a un modello di bellezza imperante (questa è solamente la punta dell’iceberg), bensì un mezzo per dimostrare a se stesse di poter esercitare quel controllo sull’esistenza che la crescita ci sta letteralmente scippando. Se le nostre sicurezze vengono meno, possiamo immaginarci di riportare l’intera situazione a uno stadio pre-puberale che, per le ragazze, significa anche pre-mestruale – e l’amenorrea, conseguenza di forme anoressiche gravi, non è un problema bensì un’ulteriore conferma della bontà di questa scelta. Il bloccarsi in una fase anteriore al menarca, ci permette di illuderci che potremo cristallizzare ab aeterno la situazione attuale o, meglio, un’età dell’oro anteriore a cui aspiriamo di tornare.
Ragazze interrotte
In qualche modo il titolo di un film degli anni Novanta è perfettamente in linea con la dimensione in cui molte anoressiche vivono. Senza generalizzare, per alcune è un tentativo di cesura con il futuro. Finalmente immobili su un punto sospeso nello spazio e nel tempo non vi è necessità di pensarsi adulte e assumersi le conseguenti responsabilità. Spesso non identificandosi nella figura materna, a volte con un padre assente e, quindi, prive di modelli adulti di riferimento, assumersi il rischio di giocarsi la vita pare un compito abnorme.
Anche il perfezionismo ha la sua parte. Spinge a essere le migliori, ma è unito a una bassa autostima. Ciò non permette a molte anoressiche di apprezzare con il dovuto equilibrio ciò che sanno fare – sebbene a volte si possano esprimere con una falsa sicurezza o persino arroganza che, in realtà, maschera voragini di dubbi (non si è mai ‘abbastanza’). Molto spesso questa è un’attitudine che ha radici in un’infanzia tesa a farsi amare da genitori assenti o troppo egocentrici per accorgersi dell’altro da sé. In altre parole, molte anoressiche considerano le proprie capacità nella norma ma, nel contempo, tentano disperatamente di elevarle a una perfezione che pare irraggiungibile – sebbene l’unica degna di nota.
Questi eterni circoli viziosi portano alcune anoressiche a non apprezzare ciò che non comprendono, soprattutto se appannaggio magari della propria madre, e a sovrastimare i propri ideali di perfezione culturale, fisica o intellettuale indipendentemente dalla loro efficacia nella vita e al fatto di risiedere sempre un passo aldilà delle reali possibilità di raggiungerli. Perché uno dei problemi-cardine è proprio venire a patti col principio di realtà. Un chilo in meno è, in realtà, un traguardo in più, una vittoria contro la nostra stessa percezione di non essere all’altezza, una conferma effimera che ha subito bisogno di un ulteriore sacrificio.
Ascetismo, tossicodipendenza, alcolismo e anoressia
L’anoressia ascetica era forma di abuso del proprio corpo largamente accettata e, anzi, venerata e citata a esempio nel Medioevo. Ma la differenza sta proprio nel passaggio tra accettazione sociale/motivazione religiosa e rifiuto sociale/malessere psicologico. Se l’abitante delle Ande mastica le foglie di coca per lavorare a 4 mila metri d’altezza, non è un tossicodipendente. Le sue motivazioni sono pratiche, l’uso è radicato nella sua cultura e accettato socialmente. Non vi è dipendenza in questa pratica che ha ragioni persino ovvie: diminuire il senso di affaticamento e combattere il dolore.
Le anoressiche non aspirano a una purezza mistica e a una trascendenza liberatoria in comunione con un dio. Bensì a un modello di perfezione molto terreno e molto personale che esclude e rinchiude, respinge e costringe – la difficoltà a vedersi per come si è, è in realtà un indice importante del grado di allontanamento tra la percezione della propria immagine corporea e il riflesso reale nello specchio (quella che chiamano dismorfofobia). E il punto di svolta tra benessere e malessere si situa non tanto nel momento in cui si inizia a scendere la china verso una diminuzione progressiva del peso, bensì quando si smette di vivere per paura di non riuscire a controllarsi. Prima si annulla un aperitivo con le amiche poi un cinema perché magari, dopo, si andrebbe a mangiare un panino. E così via, di rinuncia in rinuncia, si perdono i contatti, ci si rinchiude sempre più in se stesse, ci si rende conto di non poter essere comprese e apprezzate come sarebbe dovuto per il nostro sacrifico. Ci si scollega per difenderci. E a un certo punto si resta sole, chiuse tra quattro mura – insieme mentali e fisiche. La vita s’interrompe.
Molte anoressiche anche quando tornano a mangiare perché scelgono, principalmente, di vivere (come capita ad alcuni eroinomani che si convincono a smettere di ‘farsi’ solo per non morire), continuano però a vedersi grasse, o comunque ad aspirare a un qualche ideale di perfezione non solamente estetico e, se in condizioni di grave stress – in momenti in cui temono di perdere nuovamente il controllo della propria vita – possono tornare a non mangiare. “Mi si chiude lo stomaco”, affermeranno. E sarà così. Come potranno continuare per anni a sentirsi gonfie se pensano di avere un po’ ecceduto col cibo, o ad avere atteggiamenti ossessivi quali conteggiare ogni giorno le calorie e/o pesarsi.
Come l’alcolista sa che potrebbe tornare a ubriacarsi se ricomincia a bere alcolici, anche alcune anoressiche sanno che, in fondo, la propria natura aspirerà sempre a quel controllo e autocontrollo che potrà confermare una perfezione dell’essere irraggiungibile.
La cura passa dal riconoscimento e dall’accettazione del limite
Ogni branca di psichiatria, psicologia, psicoterapia, medicina, ha la sua visione su come curare l’anoressia. Negli anni molti professionisti hanno deciso di unire gli sforzi, di guardare ogni persona come un caso a sé stante ma anche di allargare il discorso all’ambito familiare. Perché spesso se una figlia non vuole crescere è perché non vuole diventare una donna come la propria madre. E questo non significa che la madre sia in sé una persona negativa o da deprecare o colpevolizzare, a volte è solamente così diversa da non poter essere un modello, o così assertiva da respingere qualsiasi forma di dialogo che permetterebbe all’anoressica di spiegarsi e capirsi. O ancora può essere lei stessa così debole e bisognosa di accudimento da parte della figlia da invertire i ruoli e, invece di suscitare empatia, provocare il rifiuto in colei che non vuole considerarsi vittima.
E nel dialogo madre/figlia o pubertà/adultità interrotto, a volte manca anche la voce del padre – assente, oppure violento, oppure troppo debole da esercitare una funzione genitoriale positiva e che possa controbilanciare la posizione materna. Oppure un partner che si è eclissato non prima di aver scavato nelle insicurezze, portando alla luce quegli angoli bui della mente, che l’anoressica vuole a ogni costo nascondere. Ma spesso il partner è solo il grilletto, la miccia che fa deflagrare contraddizioni ben più profonde, radicate in un sistema familiare che, da qualche parte, ha fallito. Come Tolstoj insegnava: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”.
Nel 2017 scrissi un racconto per narrare la sensazione di benessere e potere che prova l’anoressica, per cancellare il falso luogo comune che vuole l’anoressica stare male o essere una semplice edonista da passerella. La cosiddetta ‘luna di miele’ che sfuma, purtroppo, ben prima di giungere sull’orlo dell’abisso. Ieri come oggi, lo dedico a chi è o è stata anoressica.
Mi restano solo gli occhi
E come tutte le più belle cose / vivesti solo un giorno come le rose.
Avevo un corpo. Sono certa di questo punto. È un punto fermo.
Avevo un corpo a un certo punto della mia vita. Anzi, se ci ripenso bene, sarebbe più esatto dire che ho avuto un corpo fino a un certo punto della mia vita.
Bisogna stare attenti con le parole, anche con gli avverbi, persino con gli aggettivi. Forse si può derogare sugli articoli.
Ma non divaghiamo. La mia mente è usa a divagare. Negli ultimi mesi, anni forse, ha preso questo giro: divaga. Tenta di concentrarsi su un punto, preciso, fermo, ma poi inizia a oscillare. Immagino perché non c’è più un corpo che la tiene legata alla materialità – che mi e la circonda. Se non tocchi legno, non avrai fortuna. O era ferro, in italiano? Anche le lingue tendono a confondersi nella mia mente, coi loro modi di dire, così radicati nell’esperienza quotidiana, nella carnalità di un popolo che vi si riconosce. Perché altrimenti toccheresti legno, e non ferro, nella gelida Albione?
Ma torniamo al punto.
Quando entrai per la prima volta in questo albergo, avevo un corpo. Fatto di sangue e carne e vene e muscoli e forse anche un po’ di grasso superfluo e qualche ruga. Tutto l’armamentario che accompagna un essere senziente – più o meno umano a seconda della convenienza. Una come tante.
La camera era pulita, in ordine, con due locali al posto di uno perché, per una volta, era una deluxe. Con quelle piccole contraddizioni tipiche delle camere degli hotel, ossia il bagno che dava direttamente sulla cucina e ogni volta che volevo andarci finivo per aprire l’armadio (che era, giustamente, in stanza da letto). Uno sfasamento. Minimale. Come la moustache. Credevamo di avere sempre avuto i baffi, eppure… nessuno si accorge quando li tagliamo. Ovviamente, essendo una donna – o, almeno, lo era il mio corpo, perché forse la mente è aldilà dei generi e delle loro differenze vere o presunte – il problema non erano i baffi. Era un inesprimibile scarto di senso. Come ne L’uomo della sabbia dei Menoventi. Ricordo ancora quello spettacolo. La poltrona di velluto rosso nella quale si era adagiato il mio corpo in attesa del perturbante.
La vita in un hotel scorre dettata da altri. Si prosciuga nei rituali imposti dall’esterno. Si svuota del senso più intimo e profondo, corrugato del nostro essere, per assumere una consistenza liscia e compatta, tutta superficie. Tutta esteriorità. Perché si è sempre nell’occhio dell’altro: cameriere, receptionist, facchino.
La colazione, ad esempio, che, se si vuole, obbliga ad alzarsi a certi orari – stanchezza o insonnia permettendo. Le pulizie, che si trasformano in quel tempo in cui si è confinati fuori dalla stanza, quasi si fosse occupanti abusivi del proprio spazio – mentre altri toccano, spostano, vedono la nostra intimità svelata da una crema antirughe o da una pomata per le ragadi anali. I pasti, che alla lunga si succedono come i giorni della settimana, scanditi da costanti certe e da eterni ritorni legati a convenzioni che si stenta a riconoscere come proprie. Eppure il venerdì c’è sempre la pizza o il pesce. La domenica, a pranzo, l’arrosto. E fin qui, forse la logica è ancora rintracciabile nelle ataviche abitudini di una popolazione che affonda le radici nel cristianesimo e, ancora prima, nell’ebraismo. Ma perché il giovedì sera è passato di verdure? Non è più il corpo a invecchiare, segnando i giorni che passano con la puntualità monotona della certezza della morte. È l’ossessiva ripetitività del passato di verdure, ogni giovedì sera, a segnare lo scorrere della lancetta su un ipotetico orologio cosmico dell’albergatore.
All’inizio era piacevole evadere dall’anarchia della scelta personale per farsi restringere in nuove regole. Ero costretta a rispettare orari, assumere abitudini, inventarmi attività, mangiare regolarmente. Ricordo che, in quei primi giorni – o, forse, mesi, dato che il tempo disgiunto dall’essere in carne e ossa che imputridisce lentamente è difficile da quantificare – trascorrevo tutte le mattine due ore esatte in palestra. Mentre l’estraneo dotato di aspirapolvere invadeva l’intimità della mia stanza, io mi costringevo a mantenere i muscoli tonici, ricordare al cuore di battere regolarmente, imparavo a controllare la respirazione, godevo nel sentire il sangue pompato nelle vene frastornarmi nelle orecchie. Al termine, era come se grasso e stanchezza – ossia materiale e immateriale, passione e filosofia – si liquefacessero nelle piccole gocce di sudore che mi imperlavano (ma sarebbe più corretto scrivere infradiciavano come una bava sottile) la pelle. E io, soddisfatta da tale costante puntualità, a un certo punto salivo sulla bilancia per vedere l’ago scendere di un etto. Uno al giorno. Con costanza.
E con la stessa costanza ha continuato a scendere anche quando il tempo dello sforzo ha preso, inspiegabilmente, a diminuire. Impercettibile, lo scarto temporale mi ha portata a esercitarmi per qualche secondo in meno al giorno. Anche se all’inizio pensavo fosse solo una mia impressione – dovuta al fatto che ero meglio allenata e, quindi, mi sembrava di correre più veloce stancandomi di meno. Ma questo avrebbe avuto un senso se avessi corso in un parco. Su un tapis-roulant, venti minuti restano venti minuti, indipendentemente dal numero di chilometri percorsi. Perché i chilometri percorsi non sono legati a cambiamenti di panorama. L’immagine fissa del giardino di fronte alla palestra rimaneva uguale a se stessa. Non scorreva come il fondale di un vecchio film. Eppure io mi allenavo ogni giorno per qualche secondo di meno. Finché, a un certo punto, in un momento impreciso sospeso nello scatto della lancetta, ho preso solo a pesarmi. A fare solo quello. Ogni giorno, alla stessa ora. Entravo in palestra, mi toglievo educatamente le scarpe da ginnastica, premevo il tasto 4 (quello che aveva selezionati i miei dati concernenti età e altezza) e mi pesavo. E ogni giorno la lancetta del peso segnava un etto in meno. Ogni giorno, regolarmente. Poi mi rimettevo le scarpe e uscivo dalla palestra. Tranquilla. Per nulla turbata da quella lenta deriva verso il nulla.
In fondo ho sempre goduto dell’illusione del peso della farfalla. Detenere il potere assoluto sul mio corpo, controllarne il peso e, di conseguenza (o a monte) quello che vi viene immesso sotto forma di ingestione (e quanto ne è espulso), con la precisione chirurgica del bisturi, è sempre stato il mio massimo obiettivo. Perché la leggerezza della farfalla va aldilà del suo peso, è l’effimera certezza della morte sospesa sulle ali del tempo.
Ma non divaghiamo. Come ho già detto, la mia mente tende a farlo, ultimamente.
Ogni volta che entravo in palestra mi specchiavo negli occhi di una cliente diversa. Spesso la guardavo con un sorriso. Lei intenta a correre dietro al tapis, o a sbracciarsi scoordinata facendo step, magari a incespicare sulla cyclette rischiando di ammazzarsi nell’inforcarla. Io, lì, immobile sulla bilancia, che annuivo deliziata. Sapendo che lei pensava che ero una vecchia pazza. Eppure, la vecchia pazza dimagriva, senza sforzo, senza nemmeno fare un esercizio di aerobica o tentare un po’ di stretching. Mentre lei sudava livore che non si trasformava mai in grasso che cola.
Pian piano, con uno scarto spaziale, forse innescato dall’idea ossessiva che nessuno esiste veramente al di fuori dello sguardo fuggevole del passante, per quell’istante di pieno tra due vuoti infiniti, ho cominciato a non guardare più, oltre la vetrata della palestra, il giardino. Ho preso a ritrarre il mio sguardo di qualche centimetro. Prosciugandolo. Dapprima i bordi sono diventati sfocati. Poi lo sguardo si è fatto un po’ strabico, concentrandosi su un punto sempre più piccolo (se un punto di sua natura possa non essere piccolo è una divagazione che non mi concederò). Per qualche tempo ha dominato la mia visuale l’immagine riflessa del mio corpo che smagriva, lentamente, inesorabilmente. Poi lo sguardo si è concentrato sul volto, affilato, evanescente, sempre più perso nella trasparenza traslucida del vetro, liscio e compatto, senza la minima increspatura come il letto rifatto dalla mano della donna delle pulizie. Nemmeno una piega, nemmeno una ruga. Finché lo sguardo ha preso a specchiarsi in se stesso.
(da Vagabondaggi, ©Simona Maria Frigerio, 2017. Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione)
17 giugno 2020
In copertina: Foto di Anja #helpinghands #solidarity #stays healthy da Pixabay.