Come il coronavirus ha eliminato il problema del cambiamento climatico
di Simona Maria Frigerio
Chiunque viaggi, perfino con un tour operator soggiornando in resort all inclusive, sarà stato consigliato – in Egitto come a Bali, passando per Bangkok o Delhi – di sciacquarsi i denti con l’acqua in bottiglia, bere solo acqua minerale, non mangiare verdura o frutta fresca a meno di non poterla sbucciare, e così via. E chi, per caso, si sia trovato in uno di quei Paesi a dover cucinare si sarà accorto dei costi per farlo. A meno di non avere acceso a un distributore di acqua depurata e resa potabile, i contenitori di plastica da 6 litri – ad esempio della Nestlé in Thailandia – hanno un prezzo al litro dalle sei alle sette volte superiore di quello dell’acqua fornita dai distributori. In ogni caso, per noi europei il disagio è sempre di breve durata e associato per lo più con il senso dell’avventura che accompagna la vacanza all’estero.
Eppure la desertificazione e la mancanza di acqua potabile diventeranno, nei prossimi anni, un’emergenza sempre più vicina alla porta di casa. Basta aprire la pagina di https://www.worldometers.info/ per rendersi conto di come il contatore giri velocemente intorno ad alcuni dati. Quasi ogni secondo aumentano gli ettari di terra desertificati – il 3 giugno alle ore 11.12 sono 5.067.771, mentre nella stessa giornata (non mese o anno, ma nelle prime 11 ore e 12 minuti) le persone morte per denutrizione sono 14.346 (ma alle 11.14 il dato è già salito a 14.358).
In questo quadro (che vede oltre 800 milioni di individui non avere accesso a una sorgente d’acqua potabile), Naomi Klein scrive in Una Rivoluzione ci salverà (pagina 25): “Anche la Banca Mondiale, pubblicando il suo Rapporto, ha avvertito che: «Stiamo andando [entro la fine del secolo] verso un mondo più caldo di 4 gradi, segnato da ondate di calore estremo, dalla riduzione della disponibilità globale di cibo, dalla perdita di ecosistemi e di biodiversità e da una crescita potenzialmente letale del livello dei mari»”. Perché se da una parte avremo maggiore siccità e desertificazione, dall’altra si susseguiranno piogge monsoniche e stagionali sempre più devastanti (vedasi cosa sta succedendo proprio in questi giorni, ad esempio, in Somalia) e, dall’altra ancora, un’erosione delle coste che porterà alla scomparsa di atolli, fasce costiere e città d’arte come Venezia (proprio fuori dall’uscio di casa, come dicevamo).
Wuhan, dove oggi si spendono oltre 126 milioni di dollari per testare l’intera popolazione al coronavirus (con il risultato – che forse lascerà qualcuno deluso – di trovare solo 300 asintomatici, i quali, tra l’altro, non hanno contagiato né parenti né amici e tanto meno i colleghi, su 10 milioni di abitanti – costretti volontariamente al test), è al centro di una serie di iniziative di attivismo sociale a favore del clima fin dal 2014. Proteste osteggiate dal Governo che, ufficialmente, dichiara prioritaria la battaglia contro il cambiamento climatico ma, nei fatti, non vuole che alcuno si permetta di ‘infastidire il manovratore’. Eppure, nonostante le cariche della polizia, la società civile ha cominciato a dimostrare, mobilitandosi per un miglioramento della qualità dell’aria e maggiori controlli (se non la chiusura) dell’inceneritore locale. A luglio 2019, in particolare, le proteste contro la costruzione di un nuovo impianto hanno costretto le autorità a sospenderne i lavori – almeno per il momento.
Da una parte all’altra dell’Occidente capitalista, nel frattempo, i teen-ager si sono scoperti ecologisti. Dopo la fine del movimento no-global dei primi anni del 2000 – grazie anche alla ferocia delle cosiddette forze dell’ordine nella Notte delle Matite che ha avuto luogo non in Argentina, bensì alla Scuola Diaz di Genova e, successivamente, nella caserma di Bolzaneto a partire dalle ore 22.00 del 21 luglio 2001 – temi quali povertà nel mondo, acqua bene comune, inquinamento, salvaguardia della biodiversità e protezione dei nativi e delle minoranze, pacifismo e internazionalismo, redistribuzione delle ricchezze, erano scomparsi dall’agenda della politica. Almeno fino all’arrivo di una ragazzina che, senza intaccare la visione capitalistico-liberista dell’unico mondo ormai possibile, ha cominciato, però, ad attrarre l’attenzione di mass media e coetanei su almeno una tra le minacce al benessere della popolazione più in generale, ossia il surriscaldamento globale.
Dalla guerra alle bottiglie di plastica e all’usa e getta (tornato salvificamente in prima linea con il coronavirus) alle lacrime di rabbia all’Onu perché i leader del mondo le avevano “rubato i sogni”, Greta Thunberg era diventata l’eroina di artisti, intellettuali, e perfino politici quali Angela Merkel. Poi è arrivato il Covid-19 e la Thunberg ha commesso l’imperdonabile: fare una manifestazione in tempi di pandemia, con quei giovani che – come lei – non moriranno per il coronavirus ma vivranno male i prossimi anni flagellati dall’aumento delle temperature e da un’economia rapace, che dovrà recuperare il Pil bruciato dal lockdown e i fondi per ripianare il debito pubblico che, almeno in Italia, da buca si è trasformato in voragine.
In questo nuovo quadro, la conferenza sul clima è saltata a data da destinarsi. Mentre il mondo continua a girare. E così, se noi ci preoccupiamo di “salvare i nonni” – una frase in tal senso, del Ministro Luigi di Maio per il 1° Maggio, Festa dei Lavoratori e delle Lavoratrici, è molto indicativa del mood italico del momento: “…e i nonni, che hanno lavorato per decenni e ora chiedono giustamente la presenza dello Stato. Figure spesso invisibili, di cui nessuno si accorge ma essenziali per il nostro Paese, come lo sono i nostri autotrasportatori…” (e qui ci fermiamo perché la pregnanza del paragone ci sfugge) – l’isola di Henderson, dal 1988 inserita nel Patrimonio Unesco per la sua varietà di specie animali, nel frattempo si trasforma in pattumiera. E immaginiamo che presto la invaderanno anche i milioni di inutili guanti di gomma, sprecati dalla nostra ignoranza sulle misure anti-Covid dell’Oms.
Come gli ultimi turisti famelici – che si inerpicavano l’anno scorso sulla montagna sacra di Uluru, prima della sua chiusura al pubblico, inzozzandola di spazzatura – dovremo anche noi fare in fretta a visitare Maldive, Marshall o Seychelles, dato che almeno un migliaio di atolli è destinato a scomparire, nel peggiore dei casi entro una decina d’anni e nel migliore entro il 2050. E se l’Australia oggi piange i suoi koala, il fatto che sia bruciata per settimane è sì causa degli incendi dolosi, ma l’ampiezza degli stessi e la loro pervasività e durata è altrettanto certo che dipendano dal surriscaldamento globale – con una temperatura media di oltre due gradi superiore rispetto ai valori registrati nelle serie storiche dell’ultimo secolo (dati Wired.it).
Se la Somalia si trova sotto piogge torrenziali che minacciano di essere peggiori di quelle autunnali registrate nel 2019, con conseguenti sfollamenti e la necessità di nuovi campi per i rifugiati interni; anche oltre la porta di casa nostra non andrà meglio: l’anno scorso è stato pubblicato su Nature uno studio, realizzato dal Goddard Institute for Space Studies della NASA, dal Lawrence Livermore National Laboratory e della Colubia University che indica come nell’area mediterranea, oltre all’aumento dell’evaporazione, è probabile si verifichi una riduzione delle piogge, con conseguente inaridimento di ampie zone di terreno coltivabile.
E intanto, nel breve torno di tempo utilizzato per scrivere questo articolo, il rilevatore di Worldometer è salito a 5.078.859 ettari di terreno desertificato (+ 11.088 ettari) e a 16.269 persone morte per denutrizione (+ 1.911 deceduti).
3 giugno 2020
In copertina: Venezia, la Giudecca vista da piazza San Marco – senza navi da crociera all’ancora. Foto di Simona Maria Frigerio (vietata la riproduzione).