Una manifestazione per ricordare che l’educazione è un diritto/dovere
di Simona Maria Frigerio
Dopo il divieto di manifestare, a causa della pandemia, sia il 25 Aprile, per la Liberazione dal nazi-fascismo, sia il 1° Maggio – Festa Internazionale dei Lavoratori e delle Lavoratrici – si è tornati in piazza. Questa volta per chiedere che le scuole riaprano.
Sebbene il clima – soprattutto politico – in Italia viri al terroristico (basti guardare lo spot Happy Hour? promosso dal Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia: https://tg24.sky.it/cronaca/2020/05/25/coronavirus-spot-regione-veneto-movida?itm_source=parsely-api), i dati provenienti dai Paesi che hanno riaperto le scuole pubbliche in tutta Europa e nel mondo propongono un’immagine decisamente diversa dell’evoluzione del coronavirus.
La Nuova Zelanda ha riaperto le scuole lo scorso 18 maggio – medesima data per i ragazzi dai 6 ai 14 anni in Austria; tra il 23 aprile e l’8 maggio sono tornati a scuola anche gli studenti tedeschi, con date differenti a seconda dei Land; e mentre in Germania sono rientrati prima gli studenti più grandi, che devono prepararsi agli esami, in Danimarca sono stati i più piccoli a rientrare già a metà aprile, senza nemmeno la mascherina ma rispettando le distanze e lavandosi frequentemente le mani. Il risultato? La Germania, il 24 maggio, registrava 342 nuovi casi (confermando le previsioni di Lars Schaade, il vice-presidente del Robert Koch Institute che, già il 7 maggio, dichiarava: “aver fatto retrocedere il virus a un numero di casi giornalieri tra i 600 e i 1.300… ci permette di assumere un atteggiamento di convivenza con il virus e di controllo”). L’Austria, sempre il 24 maggio, era a quota 17 nuovi positivi, la Danimarca a 71 e la Nuova Zelanda a 0. Se si pensa che in Nuova Zelanda gli abitanti sono 4 milioni 900 mila e in Danimarca risiedono in 5 milioni circa, ci si domanda perché tanta ostinazione in Italia a non voler riaprire, specialmente in quelle regioni del centro-sud che non registrano più casi o ne registrano tra la decina e la trentina – come ad esempio la Calabria, l’Umbria o perfino la Toscana, il cui Presidente di Regione, Enrico Rossi, dopo aver espresso la sua contrarietà alla riapertura di tutte le attività commerciali (o quasi) il 18 maggio, in un post su Facebook (che è diventato la Pravda dei politici nostrani), in maniera forse sarcastica dichiarava: «Mi permetto di fare però una domanda al Governo: se si riapre tutti, perché non si riapre anche la scuola?». Questa domanda, con tutt’altro intendimento, la poniamo anche noi.
La manifestazione organizzata dal Comitato Priorità alla scuola che ha visto, sabato 23 maggio, scendere in strada (con i partecipanti distanziati del metro canonico), genitori, studenti e insegnanti in ben 16 città sparse sul territorio nazionale, ha voluto essere innanzi tutto uno stimolo perché la Ministra dell’Istruzione si attivi per la riapertura delle scuole di ogni ordine e grado «in sicurezza, in presenza e in continuità», mettendo fine alle lezioni online «che sono discriminatorie». Maddalena Fragnito, tra gli organizzatori della manifestazione, aggiunge, ai colleghi de La Stampa: «A Milano, invece di organizzare una piazza, abbiamo deciso di coprire cento scuole, anche il Provveditorato, con uno striscione che recita la stessa frase, che poi è lo slogan in tutta Italia, di Antonio Gramsci: “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”, scritta nel 1919 su L’Ordine Nuovo». E che si completava, guarda caso, con: “Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il nostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra forza”.
Tempi difficili quelli in cui Gramsci scriveva, tempi difficili questi in cui qualcuno, forse, vorrebbe trasformare un diritto/dovere quale la scuola – precisiamo: pubblica – in un optional da declinare nei modi e nei tempi più vari. “Solamente alcuni attenderanno alle lezioni a scuola… perché non diminuire le ore così da permettere di gestire più classi con lo stesso numero di insegnanti… saranno i dati epidemiologici a dettare le modalità della ripresa…”. Sono alcune delle tante frasi che molti di noi hanno sentito pronunciare e non solamente da politici ma anche da persone comuni, magari genitori spaventati come lo erano i danesi prima di rendersi conto che è trascorso oltre un mese senza che nulla di grave accadesse, o insegnanti che non pensano sia possibile per lo Stato italiano affrontare una maggiore spesa per l’educazione.
Eppure l’online si è dimostrato, prevedibilmente, un mezzo inefficace e inefficiente non solo e non tanto perché non si può supplire a sei ore di lezione con due, o demandare ai genitori l’insegnamento delle materie e la spiegazione di schede, questionari e compiti – genitori che, spesso, non hanno le competenze e/o la preparazione, e soprattutto che devono andare a lavorare. Non è un caso che, da ormai qualche settimana, in giro per strada i bambini siano accompagnati dai nonni (proprio la categoria che dovrebbe essere protetta e non dovrebbero frequentare), mentre il bonus baby sitter pare l’ennesimo regalo per coloro che potevano già permettersi un aiuto in casa e non certamente per chi avrebbe dovuto cercare una persona da assumere in pieno lockdown e alla quale anticipare uno stipendio (in attesa di un bonus che, in ogni caso, non potrebbe mai coprire i costi effettivi di una persona assunta a tempo pieno, a meno di non voler favorire il lavoro nero).
E il problema non è neppure (o forse lo è: a voi giudicare) che i bambini provengono da famiglie con tipologie molto differenti fra loro: ci sono stranieri che abbisognano di un supporto per la lingua, bambini diversamente abili per i quali l’insegnante di sostegno è indispensabile, studenti che frequentano licei o istituti superiori dove si apprendono materie delle quali i genitori potrebbero essere del tutto all’oscuro – dal latino alla trigonometria passando per la chimica o la ragioneria.
L’oggetto del contendere è un altro. Come scrive oggi Teatro i, che non riaprirà i battenti il 15 giugno. E del resto, chi riaprirà? Sia perché la Stagione è ormai finita, sia perché sarebbe impossibile imbastire una programmazione con così breve anticipo, sia soprattutto a causa dei parametri del comitato tecnico-scientifico che – così come impone la riapertura a giugno dei musei con oltre 100 mila visitatori l’anno, non rendendosi nemmeno conto che il turismo in Italia è azzerato e quei numeri chissà quando ritorneremo a farli – impone altresì misure di distanziamento e i 200 posti a sedere negli spazi chiusi, ignaro del fatto che tali condizioni sono proibitive e porteranno al fallimento del teatro italiano nel suo complesso – ivi compresi i settori lirico e musicale. Ebbene, le parole dei condirettori di Teatro i, Federica Fracassi, Francesca Garolla e Renzo Martinelli sono applicabili non solamente al teatro ma anche alla scuola: “Le caratteristiche del nostro piccolo spazio, nell’osservanza di tutti i protocolli, renderebbero punitiva l’esperienza comunitaria che è il teatro: impossibile l’accoglienza del pubblico nel foyer, il lavoro dei nostri collaboratori in ufficio, la gestione degli artisti sul palco. Insostenibile economicamente la sanificazione quotidiana di tutti gli ambienti per quel necessario ‘distanziamento sociale’ che noi, lavorando alla costruzione di comunità, troviamo più corretto definire come ‘distanziamento fisico’”. Trasformare un teatro da 80 posti in uno da 12 è materialmente impossibile – ma anche una Scala in un teatro da 200 sarebbe altrettanto irrealizzabile. Eppure il punto è un altro, come per la scuola: la costruzione del nostro senso civico, di una comunità, di un’appartenenza sociale e culturale parte dai banchi, e cresce poi attraverso tutte quelle esperienze – quali il teatro – che ci rispecchiano e fanno riflettere.
Al Premier Conti e ai suoi Ministri bisognerebbe ricordare che non per divertirsi si va a teatro. Così come non solamente per compilare una scheda si va a scuola. Fatti foste a viver come bruti?
25 maggio 2020
In copertina: Berlino, Castello Charlottenburg. Foto di Luciano Uggè (vietata la riproduzione).