Pillole di coronavirus
di Simona Maria Frigerio
Ci permettiamo questo furto d’autore, ossia di rubare parte del titolo a un illuminante libro di Noam Chomsky ed Edward S. Herman – che, con la precisione e la lucidità che li contraddistingue, già negli anni 90 analizzavano la perniciosa posizione del mondo giornalistico – per capire cosa sta succedendo in Italia, dopo le recenti aggressioni di colleghi giornalisti a Livorno e a Firenze.
Quando uscì La fabbrica del consenso, il giornalismo era un mondo privilegiato – economicamente e a livello di immagine pubblica – che si prestava a una propaganda più o meno soft per continuare a frequentare i salotti del potere, con qualche uscita dai ranghi, come lo scandalo Watergate negli Stati Uniti o le inchieste di Andrea Purgatori per il Corriere della Sera, utili a convalidare nell’opinione pubblica l’idea di un’indipendenza intellettuale che, francamente, abbiamo sempre avuto in pochi.
Gli anni sono trascorsi, il patinato mondo delle firme è andato in crisi insieme alla carta stampata e ai quotidiani di partito. I fondi pubblici per l’editoria italiana si sono via via consunti insieme all’idea che l’informazione non dovesse essere un diritto garantito, una necessità che anche lo Stato doveva supportare. I mezzi per informarsi si sono moltiplicati e la rete ha iniziato a supplire al progressivo svuotamento contenutistico delle testate regolarmente registrate. Mentre editori e giornalisti continuavano a incolpare i blogger di dilettantismo e di creare fake news, inseguendo però essi stessi i twitter e senza rendersi conto di quanto, negli anni, si fossero piegati ai diktat dei vari potentati – partitici ma altresì economici – e quanto la gente si fosse disaffezionata alla lettura proprio perché era ormai diffusa la consapevolezza che se si leggeva un giornale si ascoltava la voce di Confindustria, se se ne leggeva un altro era quella dell’ex PC e delle innumerevoli sigle che lo hanno seguito, e così via.
D’altronde, l’informazione imparziale è una mera chimera dato che ognuno di noi ha opinioni personali dalle quali è difficile che riesca ad allontanarsi. Il vero problema non è esprimere quell’opinione personale se supportata da cifre e fatti reali, quanto dover sostenere sempre e comunque l’opinione del direttore e dell’editore – il proprietario che utilizza il quotidiano a propri fini politici e/o economici. Questo il vulnus dell’errore e questo il motivo perché il Corriere della Sera, quando ancora era il quotidiano per eccellenza, dava voce a Pasolini o al summenzionato Purgatori. Almeno formalmente, si sentiva la necessità di garantire una qualche libertà di stampa e, prima ancora, di pensiero e di critica. Ma quella libertà non è stata conservata come il più raro dei gioielli e, nel momento della crisi del sistema, si è pensato di ovviare al taglio delle pagine culturali o degli esteri – in breve, al taglio dei contenuti – con gadget e cotillon (come se si vendesse il giornalino di Candy Candy).
Questa disaffezione dei lettori non dovrebbe però impedirci di vedere come una stampa libera e indipendente sia fondamentale per la democrazia di un Paese. Quando i lettori fanno di ogni erba un fascio non si rendono conto di quanti colleghi, in tutto il mondo, sono malmenati, feriti, incarcerati o uccisi per difendere un diritto fondamentale della democrazia, il mezzo perché ognuno di noi possa operare scelte politiche consapevoli. Basta guardare, ancora una volta, alle cifre. Nel 2019, secondo i dati forniti dal Comitato per la Protezione dei Giornalisti, la Cina (che in tempi di coronavirus mostra il suo lato migliore ma rimane un regime a partito unico con forti spinte dittatoriali) era al primo posto di questa ragguardevole classifica con almeno 48 colleghi incarcerati. A seguire la Turchia (recentemente ringraziata pubblicamente dal Ministro Di Maio per gli aiuti inviati all’Italia, fatto del quale si occuperà a breve la collega Laura Sestini) con 47. Mentre l’Arabia Saudita dei bombardamenti sullo Yemen si fermava (insieme all’Egitto) a quota 26.
A livello di omicidi, nel 2019 le Nazioni Unite denunciavano l’assassinio di 881 giornalisti nella decade precedente. Reati per il 90% tuttora impuniti. Fa specie anche un altro dato, ossia che le uccisioni siano aumentate del 18% tra il 2014 e il 2018 rispetto al quinquennio precedente, e che il 55% di tali crimini sia avvenuto in Paesi non in stato di guerra o di rivolta civile. Aggiungiamo il caso più eclatante e non ancora risolto di Julian Assange, ossia la sua persecuzione legale e mediatica – perché se molti giornalisti lo hanno difeso, altrettanti si sono allineati alle posizioni del potere politico statunitense e britannico o, peggio, si sono disinteressati di una realtà che mette in evidenza l’imprescindibile dovere/diritto della stampa di informare. E quando si fa appello al Segreto di Stato contro Assange, proprio la stampa dovrebbe rispondere che uno Stato democratico non può trincerarsi dietro a un tale privilegio perché baluardo della democrazia parlamentare è che i cittadini siano correttamente informati e, sulla base di dati veritieri, possano eleggere i loro rappresentanti. Se si falsa il gioco, il castello di carte frana.
Ma torniamo al coronavirus e agli sfortunati colleghi di Livorno e Firenze – ai quali va la solidarietà umana e professionale. Però, forse, bisognerebbe anche chiedersi perché tanto accanimento. Il dubbio che sorge spontaneo è se tutti noi si sia fatta un’informazione precisa e puntuale, e non terroristica su quanto sta accadendo. La paura esagerata che ormai impanica la gente al punto che un signore di Rivarolo va in Posta con una tuta anti nucleare; che ha trasformato regole di distanziazione sociale alquanto facili da applicare (un metro di distanza e nessuna stretta di mano o effusione amicale) in misure dittatoriali da Stato di polizia, con una pioggia di multe e denunce per innocue persone che cercano di sopravvivere facendo due passi; non è stata causata anche dai giornalisti che, sulla scia degli isterismi politici, non riescono a fare una sana critica di cifre e fatti? Basta guardare alla situazione italiana e spagnola e confrontarla con quella sudcoreana per capire che qualcosa non ha funzionato. E il colpevole non è il runner trasformato in untore da un Governo che non sa più “quali pesci prendere” e da una stampa che si rifà alle pagine manzoniane.
Oggi più che mai dobbiamo essere indipendenti, aperti, critici, urticanti, scomodi. Oggi più che mai dobbiamo dimostrare di essere utili alla democrazia e, per una volta, smetterla di pensare alle copie vendute o agli abbonamenti online. Le scelte economiche delle prossime settimane – Mes ed Eurobond non sono termini intercambiabili – potranno mettere in gioco il futuro di milioni di cittadini e della generazione più giovane. La credibilità che ci conquisteremo in questo tempo sarà quella che ci giocheremo domani.
3 aprile 2020
In copertina: Berlino, semaforo rosso. Foto di Luciano Uggè (vietata la riproduzione).