Report del 24/25 e 26 ottobre e un bilancio complessivo del Festival
di Simona Maria Frigerio
Report del 24 ottobre 2019
La quarta edizione del Festival internazionale della nuova danza riaccende i riflettori della Cittadella dei Giovani, una struttura multifunzionale che martedì 5 novembre aprirà stabilmente i battenti con un progetto triennale.
A pochi giorni dalla ripresa ufficiale delle attività (grazie all’assegnazione, tramite bando, della struttura al raggruppamento temporaneo d’impresa formato dalle realtà Trait d’Union, Fondazione Maria Ida Viglino e Teatro Instabile), ecco che la Cittadella dei Giovani ospita il Festival internazionale diretto da Marco Chenevier e da Francesca Fini. Una realtà ormai consolidata sul territorio, la kermesse ottobrina, grazie anche alle tante attività formative offerte, quali masterclass, laboratori e iniziative scuola/lavoro, rivolte a specifici target di utenza e alle scuole superiori. Una scelta, questa, perseguita dai suoi organizzatori, che ha reso la manifestazione aostana dedicata alla nuova danza non solamente partecipata, ma evento teatrale – e non solo – che vede un ampio afflusso di pubblico giovane.
Venendo agli spettacoli di giovedì 24, dopo l’incontro delle 18.00 con gli artisti che si sono esibiti la sera precedente (un appuntamento che si rinnova ogni giorno e che permette un confronto diretto tra gli spettatori e i performer), il primo a salire sul palco è Simhamed Benhalima con Soi. Purtroppo il danzatore e coreografo ha dovuto riadattare lo spettacolo – originariamente un passo a due con Kevin Mischel – per ragioni di forza maggiore. Il singolo, proprio a causa di quanto scritto, può essere recensito solamente il maniera parziale. Il dialogo danzatore/musicista dal vivo (molto brava e ottima presenza scenica, Julien Michelet) funziona e, anzi, la figura femminile si inserisce anche a livello narrativo in questa coppia non prevista, quasi che la ricerca nel sé (del titolo) debba partire dall’altro da sé, ossia dal confronto con la figura muliebre e con l’esterno per poi diventare, sempre di più, uno scavo all’interno – sia a livello spaziale (i rimandi scenografico alla dimensione casalinga) sia mentale e/o psicologico. Funzionali anche le luci che, soprattutto quando disegnano una trama di sbarre sul pavimento, rimandano simbolicamente alle costrizioni che possono portare alla follia – e qui sorge spontaneo pensare, vista anche la scelta musicale, ai centri di detenzione (e ben poco di accoglienza) per migranti, alla sensazione per chi è clandestino di essere in carcere sebbene a piede libero perché mai sicuro di sé e della propria posizione nel Paese ospitante (ma non ospitale). E proprio sul tema della reclusione/esclusione viene alla mente il film francese di Nekache e Toledano, Samba. Qualche sfilacciamento nella parte centrale, forse dovuto al riadattamento, non inficia il risultato complessivo.
A seguire M2, un’esperienza teatrale firmata dal gruppo romano Dynamis, che indaga il rapporto tra corpo e spazio, e in particolare le tecniche di convivenza in uno spazio ristretto. Partendo da quello che potrebbe sembrare un gioco, ossia posizionare sette spettatori volontari su un metro quadrato di terreno ed erba, pian piano il performer Francesco Turbanti invita (e costringe) i volontari a mettersi in relazione gli uni con gli altri, a collaborare in minime attività, a costruire dinamiche positive per raggiungere obiettivi in comune. I volontari, lentamente, sviluppano un senso di solidarietà e appartenenza (tale da far loro rifiutare la possibilità di tornare tra il pubblico scambiando il posto con uno spettatore) e sempre più, nel corso della performance, si nota come si immergano nel flusso di azioni che sono chiamati ad agire, estraendosi dallo spazio teatrale che occupano (e, quindi, non accorgendosi quasi più di essere su un palcoscenico di fronte a un pubblico che li osserva e, forse, giudica). Dal punto di vista della platea alcune situazioni sono decisamente esilaranti ma si insinua anche il dubbio, a mano a mano che la performance prosegue, che quanto si osserva non sia solamente un gioco ma un meccanismo teatrale posto in essere per metterci di fronte a importanti interrogativi, quali quelli enunciati alla fine dello spettacolo, ossia: di quanto spazio abbiamo bisogno? Chi è lo straniero? Si possono costruire con l’altro da sé dinamiche vincenti? E quali atteggiamenti sono i più efficienti ed efficaci? Un gioco teatrale, quindi, che, nella sua apparente leggerezza e semplicità, ha solide basi antropologiche e chiari riferimenti all’universo sociale che ci circonda – andando aldilà dell’analisi sui processi demografici e ponendo questioni relazionali notevoli.
A chiusura di serata la performance firmata e agita da Paola Zaramella, Elettra, è un insieme multidisciplinare che dimostra alcuni punti di forza ma anche qualche acerbità. Se il rimando al mito greco appare un po’ fumoso; al contrario, alcuni gesti, come lo spingere la scatola contenente oggetti fragili aldilà della panca, e le immagini dello scioglimento di un ghiacciaio mostrano un’affinità di contenuti che ci porta ad apprezzarne la mise-en-scène e il rimando all’intrinseca bellezza e alla sua facile distruzione. Anche le parti recitate al microfono così come i movimenti (à la Roberto Latini) seguono un loro ritmo e ben si adattano all’accompagnamento musicale, mentre la voice over e l’uso, ad esempio, di putti di gesso o della pellicola trasparente lasciano perplessi perché non solamente non se ne afferra il senso ma soprattutto perchè l’abbondare di simboli, a volte, può diminuire l’impatto del contenuto invece che aumentarlo.
Nel complesso una giornata interessante, con un teatro praticamente sold out di giovani curiosi ed entusiasti di prendere parte a una manifestazione che, grazie anche alle modalità partecipative messe in atto, sentono loro.
Cittadella dei Giovani, Aosta, giovedì 24 ottobre 2019
Report del 25 ottobre 2019
Una giornata solare e un cielo terso ci accolgono dopo due settimane di pioggia. Aosta sembra essersi risvegliata al termine di un letargo uggioso e bigio, con l’aria frizzante dell’inverno alle porte ma un’ultima spera di calore a rallegrare il weekend imminente. Anche la Cittadella dei Giovani sembra essersi rivestita di nuovi colori e l’allegria per il T-Danse si mescola a quella per il bel tempo ritrovato e alla voglia di stare insieme, condividendo non solamente lo spazio ma soprattutto l’esperienza teatrale e di vita.
Alle 20.00, sala gremita per Xuan Le, versatile artista francese che si interroga sul senso del limite in Reflet. Un semplice raggio laser rosso che taglia il palco in orizzontale, o la proiezione di un rettangolo luminoso sul pavimento, o ancora una serie di lanterne poste ad altezze diverse sono altrettanti confini invalicabili o occasioni di incontro? I corpi dei performer devono fare i conti con geometrie cangianti che allargano o restringono gli orizzonti, amplificano o prosciugano le opportunità e gli spazi praticabili. Ma soprattutto devono confrontarsi tra loro, riflettersi, scegliere la complementarietà o sfuggire l’alterità. Interessanti a livello concettuale, i quadri della performance non sempre convincono a livello coreografico ma la sostituzione del partner di Xuan Le può spiegare in parte le difficoltà in alcuni passaggi e una certa mancanza di fluidità. Bel finale, anche da un punto di vista scenografico, molto gradito dal pubblico che ha applaudito calorosamente.
A seguire, Stickman, dell’irlandese Darragh McLoughlin. Vicina al nouveau cirque, la performance si giova oltre che delle capacità tecniche e dello humour del suo ideatore e protagonista, di una stratificazione concettuale che la rende, oltre che godibile, un momento di riflessione particolarmente interessante. Se, infatti, a un primo livello emerge l’onnipresenza del mezzo televisivo nella nostra vita quotidiana e la sua pervasività; a un secondo livello, più profondo, ci si rende conto di come questo subdolo mezzo non solamente ci imponga cosa vedere ma, soprattutto, come interpretare ciò che vediamo. È sconcertante rendersi conto di alcune reazioni degli spettatori sollecitati a partecipare. Se sparare a Darragh non crea alcun problema, forse perché azione intesa come gioco e parte dello spettacolo (il to play inglese risulta verbo ambivalente e, perciò, calzante), lo spegnere la televisione (nonostante sia anch’esso momento drammaturgico previsto e dichiarato come tale) risulta più difficile. Il pubblico reagisce come se avesse perso un amico. Siamo di fronte a un nuovo Hal 9000 – di kubrickiana memoria. Abbiamo umanizzato la tivu fino a trasformare un oggetto nel nostro migliore amico – con il quale trascorriamo intere ore. E sul palco, in pochi minuti, lo schermo nero è diventato più vivo e reale del performer, che può essere sacrificato per il pubblico ludibrio. Meditare gente, meditare.
A conclusione di serata, la performance multisensoriale Self che nel dialogo tra il video-mapping di Oscar Accorsi e il suono di Mauro Cadappa trova il suo punto di maggiore forza e coerenza espressiva. Sebbene i movimenti della performer in scena, Nicoletta Cabassi, generino indirettamente e interagiscano con i suoni, in sé risultano la parte meno significativa. Il côtécoreografico è in certo senso schiacciato tra le due dimensioni, delle immagini in video e del tappeto sonoro, quasi che l’essere umano non possa competere con un uso soverchiante della tecnologia. E anche su questo, nonostante l’energia e la forza sprigionata dalla performance nel suo insieme, si dovrebbe forse meditare.
Cittadella dei Giovani, Aosta, venerdì 25 ottobre 2019
Report del 26 ottobre 2019
Alle 20.15 si inizia con il lavoro della coreografa svizzera Cindy Van Acker, presente al Festival con una serie di a soli intitolata Shadow pieces. Il V, interpretato da Stephanie Bayle, è quello a cui assistiamo. Un lavoro minimal, costruito in sottraendo, pulito, con vaghi richiami orientali. Poco espressivo, però, e dal contenuto indefinibile. Forse il senso del pezzo si afferrerà solamente quando si potrà assistere all’insieme degli undici a soli, che compongono un progetto tuttora in divenire – e il cui debutto è previsto per il novembre 2020.
A seguire, Stll (Here), in prima nazionale, della coreografa tedesca Silke Z, interpretato da Angus Balbernie e Lisa Kirsch. Un incontro, quello che si svolge sul palco, efficace sia a livello visivo che concettuale. Una performance che si può leggere a più livelli, dalla comparazione tra libertà e agilità nei movimenti a età differenti con la conseguente analisi sul concetto di danza (che attualmente sembra inflazionare un po’ il mercato, basti citare i progetti di Silvia Gribaudi), a livelli più profondi e pregni di poesia. Il desiderio d’incontro, esplicitato attraverso il tentativo di modellare il proprio gesto su quello dell’altro, può rimandare alla possibilità/necessità di dialogo intergenerazionale o, ancora, tra uomo e donna. Occorre, per alcuni, contenersi e, per altri, lasciarsi andare. Il dialogo nasce dal confronto, dal saper ascoltare, dal porsi in attesa, dall’introiettare e riflettere le amozioni dell’altro. Dal punto di vista tecnico-espressivo, l’anziano Angus Balbernie (coreografo e performer) mostra di possedere un ritmo innato, una capacità espressiva anche quando muove semplicemente i polsi o le mani a tempo di musica – pari alla Carolyn Carlson di Immersion. Tutte le evoluzioni nello spazio della giovane Lisa Kirsch non riescono a comunicare con altrettanta sensibilità e ritmo un universo di senso.
Finale forse un po’ troppo tirato per le lunghe.
Alle 22.15 la serata si chiude con i fuochi d’artificio firmati da Kulu Orr. Control Freak è un a solo multimediale ideato, realizzato e agito in scena dallo stesso autore, residente in Israele. Dietro la maschera del nerd (che in parte è, viste anche le lauree in fisica e matematica), Orr costruisce, con grande ironia ma anche con perizia tecnica e abilità nella giocoleria, uno spettacolo semplicemente pirotecnico, coinvolgendo gli spettatori in maniera intelligente e avvalendosi di un buon ritmo e strumenti musicali di sua invenzione. Indescrivibile: un’esperienza da fare e partecipare in prima persona.
Lunghi applausi calorosi, teatro gremito, finale tutto in crescendo – per lo spettacolo e per il Festival.
Un bilancio delle tre giornate
E ora veniamo a T-Danse nel suo complesso e alla tre giorni trascorsa ad Aosta, complessivamente molto positiva (grazie anche a una chiara direzione artistica di cui si scriverà più oltre) ma con alcune criticità che può essere utile evidenziare, visto anche che la Cittadella dei Giovani non sarà più uno spazio gestito da realtà diverse per manifestazioni estemporanee, ma è destinata a restare finalmente aperta, ad avere una direzione artistica e a ospitare anche una Stagione teatrale.
La prima sbavatura notata è l’uso improprio fatto da molti ragazzi, tra gli spettatori, dei cellulari per scattare fotografie durante gli spettacoli. A parte il fastidio di vedersi abbagliati dal flash mentre la sala è immersa nel buio totale per il gioco di lanterne di Reflet, o sentire un motivo musicale improprio inserirsi nelle atmosfere di M2, sembra che due messaggi non siano stati recepiti da tutti i ragazzi che hanno partecipato (con un entusiasmo che va, d’altro canto, sottolineato). Il primo è il valore del dialogo umano in teatro: tra attore e spettatore ma anche tra i membri del pubblico. Il cellulare non solamente disturba e distrae ma si pone anche come diaframma di quella realtà intessuta di corpi che è il teatro. In secondo luogo, sebbene il Festival abbia un forte legame con le nuove tecnologie (come notato nelle diverse performance) non è scevro da una sana critica verso le stesse (basti pensare a Stickman e alla denuncia del mezzo televisivo), e l’abuso del cellulare dovrebbe rientrare in quella stessa critica.
Si è anche sottolineato, e giustamente, come questo Festival grazie alle tante attività poste in essere di audience engagement, sia frequentato ampiamente da giovani e giovanissimi. Un plauso, ovviamente, alle politiche messe in atto. Ma se la Cittadella dei Giovani non vorrà trasformarsi in un centro sociale (spazio altrettanto utile a livello aggregativo ma, nel contempo, tanto includente quanto esclusivo) dovrà puntare su un pubblico trasversale, dai giovani agli adulti fino agli anziani, riuscendo a dialogare anche con gli aostani che a soli cento metri di distanza frequentano il corso pedonale tra bar, panetterie e bancarelle.
E infine è mancato lo spazio del foyer. Ossia un luogo al caldo (Aosta a fine ottobre, la sera, ha già temperature serali rigide) e accogliente, dove attendere gli spettacoli e dialogare con spettatori e artisti. Sembra che, purtroppo, non sia stato possibile aprire la caffetteria e, non avendo visto il locale, non si può sapere se quello spazio può dirsi adatto ma, obiettivamente, in vista anche di una Stagione teatrale invernale, il cortile all’aperto o la stanza approntata per l’aperitivo (fredda e poco accogliente) non rispondono a questa esigenza.
A parte queste piccole criticità sicuramente ovviabili, il Festival mostra due punti di forza che occorre sottolineare perché ne fanno una tra le manifestazioni più interessanti del panorama italiano. Il primo è il suo sguardo internazionale che permette sia agli spettatori sia agli addetti ai lavori di allargare i propri orizzonti, scoprendo contenuti e forme nuovi, linee di ricerca artistica inusuali, o al contrario una comunanza di tematiche che, sotterraneamente, stanno scuotendo l’intera Europa. Un respiro, questo, a livello di significato e di significante di cui si sentiva il bisogno dopo la soppressione di Teatro a Corte – e nonostante le modeste economie sulle quali può, al momento, contare il Festival.
Il secondo punto di forza sono i direttori artistici, di cui si avverte l’incisività nella scelta di una chiara linea di ricerca. Sempre più spesso, infatti, la direzione artistica si lascia trasportare dai presunti gusti del pubblico o cede a dinamiche quali lo scambio di spettacoli aldilà che gli stessi rispondano, o meno, a una visione artistica complessiva. Esistono Festival dove, anno dopo anno, si vedono sempre gli stessi artisti, quasi fossero degli habitué e il clima asfittico e provinciale di molte manifestazioni sta diventando indice, anch’esso, di una crisi generale di idee in ambito teatrale – e non solo. Questo non accade a T-Danse. Se Francesca Fini mostra la propria impronta scegliendo proposte vicine alla performance art (termine usato per renderci comprensibili, anche se si preferirebbe evitare qualsiasi inserimento in categorie del fare arte/teatro), sensibili alle nuove tecnologie, con un’attenzione particolare – almeno quest’anno – al lavoro delle performer; l’impronta di Marco Chenevier è altrettanto evidente. Ora, qualcuno obietterà che potrebbe essere meglio, per ampliare il parterre degli spettatori, mostrare generi eterogenei rincorrendo mode e gusti. Al contrario, personalmente, credo che ogni direzione artistica di una qualsiasi manifestazione teatrale debba essere ben connotata seppure limitata nel tempo, così da offrire un percorso coerente di ricerca che, al termine di un paio di mandati triennali (come dovrebbe avvenire grazie al Codice dello Spettacolo dal vivo per i Direttori dei teatri pubblici), potrà cambiare anche totalmente direzione con l’arrivo di nuovi responsabili.
Tornando alle scelte di Marco Chenevier, si notano due filoni coerenti anche con la sua poetica di artista. Il primo è una vocazione al superamento dei confini, a livello culturale, artistico e ideologico. Non solamente, quindi, ibridazioni felici tra arti e media, ma anche scambi fruttuosi transnazionali, un dialogo tra culture ed esperienze creative che travalica i confini geografici ma anche e soprattutto quelli eretti da chi pensa ancora di ingabbiare l’universo artistico in categorie vetero-accademiche, utili solamente a frammentare la ricerca, isterilire i percorsi e assegnare fondi pubblici, premi e spazi in base a concetti desueti – come i ministeri e gli enti che li impongono. In secondo luogo, si nota la forte concettualizzazione che sottende ogni proposta. Chenevier, nei suoi lavori, afferma di partire sempre da un’idea, una sola ma chiara e forte. Ogni performance vista a T-Danse risponde appieno a questa visione e non lo fa mai rimanendo in superficie. Gli spettacoli sono tutti leggibili a livelli diversi proprio perché pregni di senso. E il côté critico non viene mai meno. Se, infatti, il Festival ha evidenziato l’importanza della multimedialità e delle nuove tecnologie in rapporto con le ricerche artistico-espressive attuali, non è stato scevro da una denuncia della pervasività delle stesse nel nostro quotidiano e dei pericoli che corre anche il teatro, e il ruolo del performer in carne e ossa, in un confronto che può diventare impari, con uno stritolamento dell’essere umano e delle sue capacità – forse limitate ma, proprio per questo, a livello valoriale più preziose.
Una quarta edizione intensa che apre le porte, si spera, a una lunga e proficua stagione contemporanea e internazionale di fare teatro ad Aosta.
Cittadella dei Giovani di Aosta, sabato 26 ottobre 2019
Pubblicati su Traiettorie.org, il 26, 27 e 29 ottobre 2019
In copertina: Il manifesto del Festival, edizione 2019.