Report del 1° agosto 2019
di Simona Maria Frigerio
Collinarea Festival, organizzato da Scenica Frammenti, giunge alla XXI edizione, e quest’anno si pone l’obiettivo di trasformare il piccolo borgo toscano di Lari in un nodo di connessioni. Nonostante le difficoltà economiche affrontate negli ultimi anni, che hanno costretto la direzione artistica di Scenica Frammenti a comprimere temporalmente la manifestazione e a diminuire il numero di spettacoli e artisti ospitati, Collinarea mostra una forte volontà di resistere – e di farlo in maniera costruttiva, ossia rilanciando il Festival con un futuro progetto pluriennale finanziato anche con un contributo europeo. Quello che si nota, percorrendo il borgo, è il valore di questo Festival per Lari, un paesino arroccato intorno al suo Castello e che, pur mantenendo intatto il suo fascino, sembra che si stia inesorabilmente spopolando.
Rispetto all’ultima visita fatta, nel 2014, sono molte le attività commerciali che hanno chiuso e anche i turisti che ne percorrono le vie non paiono sufficienti a mantenere in vita questo gioiello perso nella campagna toscana.
Collinarea ha, innanzi tutto, il pregio di abitare tutti gli spazi di Lari, dalla piazza al Circolo Arci fino al Castello e al teatro, che diventano palcoscenici naturali o ad hoc per il succedersi di performance e altre iniziative, come la proiezione di documentari, i laboratori e gli incontri che, quest’anno, si concentrano sul tema della connessione (ma ci torneremo più oltre). Gli abitanti di Lari, negli ultimi anni, dopo un periodo di indifferenza o addirittura di ostilità – anche aperta – sembrano avere acquisito una maggiore consapevolezza di come Collinarea sia davvero parte della loro storia ed evento culturale che li rappresenta, all’esterno, e li autodefinisce, all’interno. Non a caso sono i cittadini, i singoli ma anche le famiglie, che offrono (soprattutto da quando le economie si sono ridotte anche a causa della scomparsa dei finanziamenti del Teatro Era di Pontedera) ospitalità agli artisti e ai critici, dimostrando come questa manifestazione sia diventata patrimonio comune e condiviso. E ancora, quest’anno, l’intero borgo, nella giornata finale di sabato 3 agosto, si trasformerà in un enorme palcoscenico a cielo aperto, ossia nella Napoli di Eduardo – coi suoi panni ad asciugare, appesi ai balconi e alle finestre – per ospitare tra le sue viuzze o all’interno dei suoi cortili una versione originale di Natale in Casa Cupiello.
In questo clima collaborativo e di condivisione, prima dello spettacolo Bianca, firmato da Civilleri Lo Sicco, ecco quindi incontrarsi professionisti di settori che appaiono lontanissimi gli uni dagli altri. Carlo Ventura, biologo molecolare dell’Università di Bologna; Salvatore Tedesco, professore di estetica dell’Università di Palermo; e Fabrizio Galatea, regista del documentario Sa femina accabadora (che sarà proiettato più tardi in serata), sono stati invitati a raccontare come, in qualsiasi ambito – dalla biologia al pensiero filosofico passando per la realtà aumentata – le connessioni siano una necessità che si trasforma in scelta vincente. La discussione, interessante in sé, serve anche per lanciare l’idea di porre Lari al centro di un progetto europeo intitolato città INvisibile, che dovrebbe/potrebbe creare connessioni trasversali tra discipline, arte e scienza, tecnologia e teatro, permettendo di fruire – grazie alle nuove possibilità offerte dalla rete – dello spettacolo dal vivo in modo diverso. Il progetto, per il momento delineato a grandi linee, sembra ambizioso e si porrebbe l’obiettivo – per quanto è dato capire – di mettere in connessione vari spazi culturali e artistici del circondario, ma altresì di costruire reti di condivisione allargate a vari Paesi europei, e infine di trasmettere online la manifestazione dal vivo ma anche immagini fruibili – pensiamo in 3D – di musei, dei borghi coinvolti, degli spazi dedicati all’arte o al sapere in senso più ampio. Un progetto che, ovviamente, prevederà la richiesta di un finanziamento europeo e intorno al quale Collinarea sta coinvolgendo altre città e manifestazioni. Nei prossimi anni cercheremo di tornare sull’argomento per capire se è stato possibile realizzarlo.
In prima serata, lo spettacolo è Bianca, con l’ideazione e la regia a quattro mani di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. Un percorso nel dolore e nelle paure di una donna, insieme se stessa eppure archetipo di molte tra di noi. Grazie a un utilizzo à la E. G. Craig dello spazio e degli oggetti che lo delimitano e compongono la messinscena, la realtà più intima è palesata in geometrie significative: che includono, escludono, proteggono o soffocano l’essere umano. Di grande pregnanza, a proposito, la prima scena con la protagonista arrampicata (eppure in bilico) su una caterva di sedie ammonticchiate che la preservano dall’ambiente circostante ma, allo stesso tempo, le impediscono la socializzazione. L’inserimento nella realtà avviene attraverso un atto di forza che ha, però, la bellezza e la grazia dell’aiuto tra donne. A seguire, e per oltre due terzi dello spettacolo (ottimamente agito da Filippo Farina, Manuela Lo Sicco e Simona Malato) Bianca prova in ogni modo a integrarsi, passando per quelle false sicurezze che sono, al contrario, dipendenze, dal fitness all’alcool fino al matrimonio, visto come possibilità di innalzarsi, di trovare un proprio ruolo – stabile – al fianco di un uomo. Un uomo al quale alla fine ci si aggrappa disperatamente e che, al contrario, aspira a una libertà superficiale (interessante la scena danzata da Filippo Farina con gli abiti femminili appesi alle braccia). L’insieme drammaturgico e registico, la composizione delle geometrie e l’uso di una mimica inappuntabile fanno scorrere l’azione in un crescendo che raggiunge il climax nell’abbandono di tutto e di tutti, nella presa di coscienza che qualsiasi elemento esterno – umano o meno che sia – non serve a puntellarci nell’esistenza, a farci sentire centrate e presenti a noi stesse. Qui potrebbe calare il sipario che non c’è. Il finale, al contrario, si slabbra un po’. Si fa avanti un certo caos creativo. Il maschio deve perdere la propria mascolinità per conquistare una nuova consapevolezza di genere? La scena delle scarpe sembrerebbe mostrare questo risvolto, ma poi i continui tentativi di uccidere il maschio stesso generano quel senso di caos di cui si accennava. Così come la nascita del figlio apre la porta a nuovi dubbi (sebbene questi più che leciti in un lavoro creativo che non voglia essere assertivo bensì realmente artistico e, quindi, scevro da preconcetti e aperto al dialogo con lo spettatore). Ci si trova di fronte all’ennesima dipendenza o assunzione del cliché quale garanzia del proprio ben-essere nel mondo, ossia alla presa di posizione che una donna è veramente se stessa solamente quando assume il ruolo di madre; oppure alla denuncia di un eterno ritorno dal quale non è possibile affrancarsi e, di conseguenza, seppure si è ucciso il maschio, se ne crescerà un altro che ricalcherà il medesimo modello? Dubbi che il teatro, quando è tale, deve suscitare.
Collinarea Festival, Lari (Pisa), giovedì 1° agosto 2019.
Pubblicato su Traiettorie.org, il 2 agosto 2019.
In copertina: Una scena di Bianca. Foto di Andrea Casini (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di Collinearea).