La danza come focus della giornata del 3 luglio
di Simona Maria Frigerio
A San Gimignano torna la cinque giorni dedicata alla danza, al teatro e agli approfondimenti, diretta da Tuccio Guicciardini e Patrizia De Bari.
Alle 17.00, prima dell’inizio delle quattro performance in programma, si tiene, nella Loggia del Teatro in piazza Duomo, un incontro sul passato e sul futuro del mondo coreutico, al quale partecipano sia parte delle Compagnie ospiti, che si esibiranno in giornata, sia semplici spettatori e amanti della danza incuriositi dal dibattito. È interessante partire proprio da alcune tra le istanze emerse nel corso dell’incontro per analizzare da un altro punto di vista ciò che sarà proposto in serata.
Durante il confronto emerge una certa difficoltà a identificare il linguaggio artistico che definiamo ancora oggi danza e che, al contrario, per i finanziamenti del Fondo Unico dello Spettacolo deve corrispondere a precisi quanto – sembrerebbe – desueti o astrusi algoritmi di valutazione. Nemmeno una definizione a maglie larghe come ʻespressione artistica che affonda il proprio linguaggio nel gesto e nel movimento del corpo nello spazio’ sembra più contenere tutti i rivoli di questo mare tumultuoso che sarebbe la danza contemporanea.
Anche la tecnica, erroneamente identificata da alcuni – soprattutto dai giovani coreografi del progetto del CIMD, Centro Internazionale Movimento Danza – come balletto classico e che implicherebbe, al contrario, una conoscenza del corpo e una padronanza dello stesso complessive, appare ormai lettera morta di fronte a questo nuovo linguaggio che dovrebbe sostituire qualsiasi espressione passata – o addirittura passatista.
Eppure ci si chiede: Gertrude Stein non conosceva la sintassi prima di smontarla? E Virginia Woolf non scriveva trattati logico-razionali per poi librarsi in voli pindarici quando lo richiedevano i suoi romanzi? E infine, Imre Thormann non ha studiato quasi quindici anni il Butoh prima di reinterpretarlo in maniera concettuale, sradicandolo dalle radici per far fiorire il suo personale teatro della crudeltà? Il coreografo, in primis, sarebbe quindi in grado di elaborare le proprie coreografie senza essere mai salito sul palco come danzatore, senza essersi quindi confrontato con il pubblico né aver verificato sul proprio corpo teorie e/o pratiche?
Dal dibattito emerge l’idea che il rapporto tra coreografo e drammaturgo o regista appaia ormai superfluo ai giovani del CIMD, sia per motivi economici sia perché il coreografo dovrebbe racchiudere in sé le tre figure – nel caso si voglia dare un contenuto drammaturgico alla performance di danza; la qual cosa, però, non sarebbe più un elemento indispensabile per l’espressione e la comunicazione tra danzatore e spettatore. L’idea, in quanto tale, sembrerebbe centrale a questa nuova forma artistica, chiamata tuttora danza. Un’idea astratta, non più collegata nemmeno con la musica (che appare un orpello sebbene ritmo e danza siano strettamente connessi nella nostra comune matrice antropologica); esprimibile attraverso una multidisciplinarietà che rende fluido e desueto lo stesso termine (il quale, però, è ribadito in quanto definizione di questa forma linguistica).
Tale arte dovrebbe essere compresa dai critici e dagli stessi, se non veicolata, almeno consegnata al pubblico scevra non già da pregiudizi e preconcetti (il che sarebbe sempre auspicabile) ma anche da un onesto giudizio di merito. Quasi che il critico dovesse trasformarsi in divulgatore (o, peggio, in promotore e/o educatore).
Alla luce di quanto emerso e consapevoli che, al contrario, il giudizio e lo strumento critico sono due facce della stessa medaglia e che se il nostro ruolo è anche fornire strumenti al pubblico per una lettura più agevole dell’opera, d’altro canto non possiamo esimerci dall’analizzare onestamente quanto vediamo e/o sperimentiamo a teatro, partiamo dall’analisi della prima performance messa in atto, negli spazi di Galleria Continua e, quindi, in una dimensione site-specific, come accadrà successivamente per Abitare la Città – in piazza Duomo.
Animanimale (coreografia di Roberto Doveri e interpretazione di Alessandro Torresin), pur partendo da un’idea non originale, ben esprime attraverso il gesto di Torresin la nascita di una individualità animale imprecisa, abbozzata, che viene alla luce e con quella luce si confronta. Anche il dialogo tra corpo del danzatore e musica sussiste sebbene il primo non assecondi fino in fondo i ritmi della seconda (e questo ci appare una pecca in quanto proprio le forme tribali, che a quell’animalità paiono affini, avevano e conservano un profondo legame con il ritmo). La dimensione site-specific di Galleria Continua, inoltre, non pare essere stata utilizzata per creare la coreografia stessa e, quindi, se ne perde il valore di fattore dialogante. E qui va notato che se è difficile, vista l’importanza delle opere in mostra, agire un’azione performativa a stretto contatto, ad esempio, con l’installazione di Tayou e Pistoletto; d’altro canto, è l’installazione stessa – posta nel salone centrale, in quella che un tempo fu una platea da cinematografo – che avrebbe potuto interagire anche simbolicamente con la danza, visto il contenuto allegorico dell’arte povera di entrambi gli artisti e, in particolare, il lavoro sul recupero della maschera tribale di Tayou.
A seguire, come già scritto, Abitare la Città, una performance site-specific agita sui gradini e in piazza Duomo, e diretta da Davide Valrosso con i summenzionati giovani coreografi del Centro Internazionale Movimento Danza – messi alla prova dei fatti. Inciso dovuto: Orizzonti Verticali si distingue ogni anno per la perseveranza nell’abitare tutti gli spazi di San Gimignano, pubblici e privati, anche offrendo momenti di bellezza gratuiti. In questo lavoro, però, notiamo come la mancanza della musica si faccia ʻsentire’. Se eseguire dei passi o dei movimenti senza musica è di per sé lontano dalla matrice antropologica della danza stessa, in uno spazio ampio, circondato da rumori e suoni autentici, il site-specific richiederebbe che il danzatore risponda a quelle sollecitazioni, perché altrimenti questa scelta scenografico-spaziale perde in contenuto e fonte di ispirazione poetica, e il gesto pare più vicino a quello della ginnastica che non a un movimento di danza. Ecco, quindi, che il non porsi a priori domande sulla capacità e sui mezzi per comunicare un messaggio, e su quale sarà la risposta o meno del pubblico; così come il rifiutare il dialogo con il ritmo (musicale o, in questo caso, con l’onda sonora percepibile in una piazza), ma anche con la costruzione di senso (chiamiamola drammaturgia o usiamo altri termini, come si preferisce), porta a una performance che non lascia il segno ma appare come una breve esibizione avulsa dal contenitore.
In serata si chiude con BTT Balletto Teatro Torino, che presenta – alla Rocca di Montestaffoli – Timeline (coreografia di Ella Rothschild) e Balera (firmata da Andrea Costanzo Martini, coreografo italiano che vive e lavora in Israele). Anche qui si rintraccia una certa difficoltà a rapportarsi con la musica che, anche quando presente, spesso (ma non sempre) non dà il ritmo né sottolinea il mood dei passi danzati. Soprattutto Rothschild indugia in tableau vivent e lunghi silenzi che rendono la rappresentazione troppo statica. Sebbene si respiri la tensione, fisica e psicologica, nel complesso il lavoro risente di questa mancanza di ritmo. Per quanto riguarda il livello drammaturgico, lo stesso sembra girare un po’ a vuoto. Qui abbiamo danzatori che dimostrano di saper gestire il proprio corpo (ed ecco che la tecnica rientra in gioco) ma è il disegno coreografico che lascia perplessi. Non pare si possa parlare di danza astratta, al contrario, eppure sfugge completamente il senso di un discorso intessuto nello spazio da gesti e movimenti che non mostrano né pregnanza in se stessi né si compongono in discorsi concettuali o racconti. E se volessimo parlare (ma, onestamente, non possiamo) di danza astratta, quest’ultima avrebbe bisogno di geometrie, precisione matematica e di una versatilità del corpo che è propria, ad esempio, di un Alonzo King che modella i suoi arabeschi attraverso Keelan Whitmore in Rasa o di un Marco Goecke che dialoga con i giovani danzatori/fauni della Nederlands Dans Theater.
A seguire, Balera, coreografia che lascia anch’essa perplessi soprattutto per una lunga parte centrale che si rifà a quei giochi da bambini o danze da spiaggia in cui una voce comandava di toccarsi il capo, mostrare la pancia, dimenarsi, e così via. Per il resto, la coreografia ha un qualcosa degli anni 90, un sapore di amarcord, o un riflesso di una visione dell’Urss da polpettone hollywoodiano, che convincono anche meno.
Nel complesso viene da pensare che se la multidisciplinarietà, il multilinguismo, la fluidità tra arti è un valore ormai acquisito, su un palco possono (se vi è una necessità creativa a giustificarlo – e non un obbligo da Fus) dialogare cinema e prosa, danza e mimica, videoinstallazioni e attività circensi, musica e scenografie à la Edward Gordon Craig. Non ci si scandalizza, ma anzi si plaude quando si parla di teatro – a tutto tondo – per una Jeanne Mordoj. Però, se Marina Abramović può essere considerata una rappresentante della performance art e, quindi, adatta a essere ospitata nei musei, anche quando le sue performance sono agite da altri, ossia da attori – sebbene si definiscano artisti – non si capisce perché la performing art sia ancora un ibrido poco compreso che stenta ad affermarsi seppure racchiuda in sé proprio quella fluidità di cui si scriveva e che è forse il maggior portato del teatro contemporaneo.
Nonostante ciò, questa danza concettuale, poco o non danzata, che si ostina a farsi chiamare danza, lascia perplessi. Come l’arte concettuale (nel sistema figurativo) ha finito per produrre dei designer che sono spacciati per artisti allo scopo di gonfiare il mercato dell’arte, e che oltre ad avere un’idea e a firmarla non fanno, materialmente, più nulla (e, questo, dovrebbe essere design e non arte, anche se detta convinzione può apparire passatista), così la danza che rivendichi questo appellativo ma poi rifiuti di confrontarsi con le tecniche, non dialoghi più con la musica, stenti a veicolare idee, emozioni o concetti, non si ponga nemmeno il dubbio che un’arte performativa, in quanto comunicativa, ha bisogno di tre fattori basilari per funzionare (il performer, lo spettatore, il messaggio), ebbene questa forma di danza lascia perplessi e non si può onestamente sottacere dette perplessità.
Orizzonti Verticali, San Gimignano, mercoledì 3 luglio 2019.
Pubblicato (con alcune modifiche) su Traiettorie.org, il 5 luglio 2019
In copertina: Animanimale, ospite di Galleria Continua (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa di Orizzonti Verticali).