Il mio nome è Nevers?
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Sul palco del Teatro Metastasio di Prato, va in scena lo spettacolo tratto dal romanzo breve di Marguerite Duras. Quando la forma inficia il contenuto.
Premessa. Nel ‘59 Marguerite Duras scrisse soggetto e sceneggiatura per il capolavoro di Alain Resnais, Hiroshima Mon Amour, storia di un lui e di una lei che, attraverso un incontro sessuale occasionale, imparano a conoscersi e a compartecipare l’uno il dolore dell’altro – come individui ma anche come popoli. Nell’‘82 esce La Maladie de la Mort, storia di un lui e di una lei che, a distanza di una ventina d’anni dall’appassionata liaisonin stile nouvelle vague, sembrano al contrario riconoscere l’impossibilità di comprendere/raggiungere l’altro da sé – anche se tra gli individui intercorrono rapporti sessuali. In quest’ultimo romanzo, però, vi sono comunque segnali di un tentativo di dialogo, non solamente perché il lettore riesce, a tratti, a immedesimarsi nei due protagonisti (o nell’occhio esterno della voce narrante), ma anche perché grazie al continuo scambio, non solamente di fluidi corporali ma di battute scritte nella bellissima lingua della Duras, i ruoli di potere si invertono e, nel finale, balena forse la luce di uno spiraglio, di una impossibile guarigione dal male di vivere (un finale in certo senso aperto, come nelle corde della sua autrice – che, in una tra le pagine più belle de L’amant, non a caso, scrive del proprio alter ego: “Très vite dans ma vie il a été trop tard”).
Veniamo ora allo spettacolo con la regia di Katie Mitchell e l’adattamento di Alice Birch, che afferma: “La Duras esplora la convinzione dell’impossibilità di un’autentica intimità emozionale o sessuale tra uomo e donna. L’adattamento cinematografico live di Katie Mitchell mette questo aspetto al centro, attraverso una profonda esplorazione dell’intimità, del genere, della pornografia e del sesso”. Le domande che conseguono a simili dichiarazioni sono due. L’idea di mettere in scena le riprese di un ipotetico film sul romanzo della Duras apporta qualcosa di innovativo al genere teatrale? Ma, soprattutto, riesce a restituire la “profonda esplorazione dell’intimità, del genere, della pornografia e del sesso” di cui sopra?
Purtroppo, a noi sembra di no. E spieghiamo il perché di tale parere – per quanto soggettivo. In primis, la messinscena di una ripresa live è ormai un cliché. Al Fabbricone avevamo già visto, solo per fare un esempio, Empire di Milo Rau – anche se le riprese erano meno “ingombranti”, ossia senza l’ausilio di tecnici e microfoni; oppure, l’interessante esperimento dell’audiodramma a teatro, lanciato alcuni anni fa da Elfo Puccini e Fonderia Mercury. Il teatro nel teatro ha anch’esso illustri precedenti senza scomodare Pirandello; e nel cinema, solo per fare un esempio, il dietro le quinte è ormai un must – almeno dai tempi del Truffaut di Effetto Notte (La Nuit américaine, del lontano ‘73). Ovviamente, questo non significa che non si possa riproporre un’idea metadisciplinare in quanto forma funzionale al contenuto. Si sottolinea solamente che, per quanto altamente professionale e tecnicamente riuscita, non si tratta di un’innovazione registica. Il problema nasce però quando si voglia valutare se detta messinscena sia un mezzo per veicolare al meglio il contenuto – come già scrivevamo. Il senso di claustrofobia, proprio del lavoro della Duras, si perde a causa dell’effetto set cinematografico: gli ambienti – quello della realtà fittizia del set e quello dell’immagine della realtà, ossia il proiettato – si sdoppiano, costringendo l’occhio e la mente dello spettatore a seguire in parte ciò che avviene sullo schermo, e in parte quanto accade in scena. Il continuo passaggio interno/esterno, presenza viva/imago cinematografica, diegetico/extradiegetico, non restringe gli spazi emotivi e psicologici ma al contrario ne apre sempre di nuovi. E nel contempo non permette allo spettatore quell’immedesimazione in lei o lui – che, al contrario, avviene, almeno a tratti, nel libro. Si rimane freddi, si guarda con occhio da scienziato non tanto i due esseri da dissezionare sotto la lente del microscopio, quanto i sotterfugi messi in atto dai tecnici e dalla regista: le riprese in esterno che devono essere state fatte in precedenza, quelle che servono a distrarre lo spettatore durante i cambi di scena, e ancora ci si rende conto che alcune parti sono ovviamente montate perché i tempi del video non corrispondono alle azioni agite sul set fittizio, e così via. Ci si perde nell’analisi della forma, dimenticando il contenuto.
Ma mettiamo pure che questa scelta serva non tanto a restituire l’universo ovattato di dolore della Duras, quanto la sua analisi sull’intimità, la pornografia, il sesso. E partiamo dal primo termine. L’intimità si costruisce con il dialogo. Nel romanzo breve, infatti, grazie al dialogo che pian piano si instaura tra i due personaggi, i ruoli di potere si invertono (come accade, anche, in Una bestia sulla luna, recentemente messo in scena a Firenze). Ma qui i dialoghi sembrano perdere consistenza: la lingua della Duras è quasi un di più – quella lingua che, al contrario, è una fusione continua di poesia e crudezza, lirismo e impudicizia. Solamente l’incipit e il finale ritrovano il senso profondo dell’opera originale, ma non basta: la tecnica dispiegata è predominante e i tempi per attuarla finiscono per soverchiare tutto, annichilendo la semplice parola.
Per quanto riguarda la pornografia e il sesso anche su questo abbiamo dei dubbi. Nagisa Ōshima pose al centro de L’Impero dei sensi, a livello di contenuto, eros e thanatos; e a livello formale la dicotomia tra pornografia e arte e, per farlo, mise in scena amplessi reali. O si ha il coraggio di una penetrazione o si sublima l’atto. La finzione dell’atto suona come una nota falsa, la più falsa di una messinscena che, scegliendo la metadisciplinarietà, allontana già di partenza dalla compartecipazione e, quindi, anche da qualsiasi “esplorazione profonda”. Si resta in superficie. La Maladie de la Mort sembra una frase a effetto buttata lì dal personaggio femminile, e non l’espressione di un dolore profondo condiviso da chi non ha mai saputo amare e da chi, forse, ha troppo amato un padre che, alle sue carezze, ha preferito una corda (per impiccarsi). E lo spettatore si sente più come un voyeur che spii nella doccia del Grande Fratello, che non come un testimone – compartecipe ma impotente – della sofferenza umana.
A legare i passaggi, la voce narrante di Jasmine Trinca, abbastanza piatta e poco coinvolgente, che non restituisce né dolore, né freddezza, e nemmeno calma accettazione, ma regala un ritmo monotòno a una vicenda altrimenti complessa che, nonostante il dispiego di mezzi e la profondità dei temi trattati, si dipana in poco meno di un’ora.
Sembrano lontani i tempi in cui Resnais usava il flashback, non per restituire il passato ma per renderlo immanente – i tempi in cui la tecnica era al servizio della poetica.
Pubblicato su Artalks.net, il 21 novembre 2018
In copertina: Immagine dello spettacolo (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Met di Prato).