Paganini come Hendrix: due facce della stessa medaglia?
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
L’era Luca Bizzarri come Presidente di Palazzo Ducale si inaugura con una mostra basata sul confronto tra due musicisti che, aldilà dell’interattività, lascia alquanto perplessi.
Premessa. Naomi Klein, in No Logo, denuncia la commistione perniciosa tra pubblicità/branding e linguaggio proprio del marketing e scuole/università/ricerca, riportando – tra l’altro – questa dichiarazione del professor Mark Edmundson (dell’Università della Virginia) circa i feedback degli studenti sui formulari di valutazione dei corsi: “La cosa che mi piace meno è il linguaggio da esperti consumatori che permea le risposte. Mi disturba la serena convinzione che la mia funzione, e, ancor più importante, quella di Freud, o Shakespeare, o Blake, sia di distrarre, divertire e interessare”.
Perché iniziare così una recensione di una mostra? Perché di fronte a qualsiasi proposta culturale bisogna, innanzi tutto, comprendere le motivazioni che hanno spinto a farla. Nel caso delle università (e scuole di ogni ordine e grado) statunitensi e canadesi, la motivazione per la massiccia intromissione delle aziende nella scuola pubblica era la necessità di reperire fondi aggiuntivi, nel momento in cui – con la progressiva defiscalizzazione delle aziende – venivano a mancare i contributi pubblici (o ad assottigliarsi irreparabilmente). Dal punto di vista di Palazzo Ducale e del suo nuovo Presidente si può immaginare che la scelta di Paganini Rockstar sia quella di allargare il numero di visitatori presentando mostre che, per contenuto e forma, abbiano un maggior appeal.
La domanda successiva potrebbe allora essere: a che pro favorire la semplificazione – propria della pubblicità e della televisione – a fronte di una complessità sempre più indispensabile per affrontare un mondo in continua evoluzione, dove le sfide – soprattutto per le nuove generazioni – si fanno sempre più complesse – a livello culturale, ma anche politico ed economico – e dove occorre recuperare capacità e pensiero critico per evitare di scivolare nel qualunquismo di pancia che sembra contagiare mass media, politici e opinionisti tv?
Partiamo da qui per analizzare la mostra e, da subito, ci rendiamo conto che al posto di Paganini avremmo potuto indagare il mito di Farinelli (celeberrimo cantato lirico, al secolo Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi), che utilizzava la voce con lo stesso virtuosismo con il quale un musicista usa il proprio strumento e che aveva raggiunto, in vita, una fama paragonabile solo a quella degli attuali divi cinematografici (o degli ospiti della Casa del GF), o, fino a una ventina d’anni fa, delle rockstar (ormai cadute in disgrazia sia perché altri generi hanno preso il sopravvento, sia per la crescita della musica usa e getta e delle band preconfezionate). Quindi, perché concentrarsi su Paganini? Ammettiamo che la scelta sia dovuta ai suoi natali genovesi. Ma ponendoci la stessa domanda circa l’accostamento a Jimi Hendrix, i dubbi aumentano. Sia in quanto la mostra è effettivamente divisa in due parti: molte sale dedicate al violinista e compositore, le ultime al chitarrista e cantautore – con una cesura che non favorisce il dialogo. Sia in quanto i pochi accostamenti ci sembrano spuri – tra questi, una presunta gioventù scapestrata di Niccolò affiancata a foto segnaletiche (tipo verbali della polizia) di star quali David Bowie e Mick Jagger (che hanno fatto del trasformismo un’arte), o Jim Morrison (morto a soli 27 anni). Anzi, Bowie, con la sua parabola da Ziggy a tranquillo signore borghese, colto e raffinato, avrebbe forse rispecchiato meglio vizi di gioventù e grande dignità nella malattia, in età più adulta, propri di Paganini. Ma questo è il punto: fare paragoni è facile. Fin troppo facile. Dove starebbe la complessità di questo raffronto, di questa scelta culturale della maggiore istituzione genovese?
Forse la risposta è nell’interattività. Il valore aggiunto di una mostra, obiettivamente, per musicologi o cultori del violino, potrebbe essere quello di utilizzare un linguaggio altro per arrivare a un pubblico più vasto. Pensiamo, ad esempio, al video che ci accoglie all’entrata e che “spara” letteralmente le parole, spiegando che le stesse sono battute alla stessa velocità che Paganini raggiungeva nel restituire le note. Ovviamente, il paragone può sembrare accattivante e persino sinestesico. O alla bella intervista a Salvatore Accardo, che meriterebbe grande attenzione – ma, essendo bombardati da luci, scritte e musica da ogni dove, è difficile concentrarsi come si vorrebbe e, d’altro canto, dare il giusto peso a un’autentica lezione di musica laddove l’occhio scivola sulla foto segnaletica di Morrison. Ecco il primo campanello d’allarme: rischiamo di ritrovarci a vivere questa mostra, come se fossimo in un centro commerciale, distratti da pubblicità, jingle e cotillon.
A seguire, Morgan con abiti del Settecento che, proprio per la sua scelta di mascherarsi, si fatica a prendere sul serio. I significanti sono indispensabili alla costruzione di un messaggio ma se tra di loro tendono troppo a divergere, si rischia che la serietà dell’uno (le spiegazioni di Morgan) sia offuscata dall’effetto carnevalesco dell’altra (il costume).
E ancora, spartiti e lettere, che saranno sicuramente di grande interesse per musicologi e violinisti, o storici della musica, ma che, inevitabilmente, se privi di strumenti critici, non diventano più pregnanti – a livello di comprensione comune – solo perché, in formato digitale, si dà la possibilità al visitatore di girare le pagine degli stessi. Sempre circondati da pareti ricoperte di scritte e da una musica fin quasi assordante, a misura che ci si avvicina alla fine, è un senso di confusione quello che prevale: come se si fosse immersi in un roboante contenitore televisivo tra luci stroboscopiche ed effetti speciali. D’altro canto, quando Roberto Bolle danza, nella sala non c’è nemmeno una sedia per ammirarne il virtuosismo – forse che godere della bravura di un ballerino di fama mondiale, con tranquillità, non sia abbastanza interattivo o coinvolgente?
La cesura è netta tra Paganini e Hendrix. Ad accoglierci in questa sezione, che appare separata, Ivano Fossati in video a raccontare Hendrix, come Accardo aveva fatto per Paganini. Anche qui, la situazione richiederebbe un tempo e una installazione adeguati così da valutare le suggestioni che il cantautore ci regala.
Il giochino interattivo di alzare o abbassare i volumi degli strumenti di un paio di brani di Hendrix dell’epoca non aggiunge granché al discorso musicologico anche perché era la chitarra di Jimi, ovviamente, a fare la differenza (vedasi il percorso delle sue band).
Persino la suggestione del confronto tra il celebre ʻcannone’ (il violino preferito da Paganini) e un pezzo della chitarra che Jimi spaccò e bruciò al Festival di Monterey suona un po’ falsa. In primis, perché questo era un vezzo non nuovo a Hendrix (che aveva già distrutto una Stratocaster a Londra); secondo perché Paganini, al contrario, amò ed ebbe cura del suo violino (e in questo possiamo ravvedere un rapporto completamente diverso con lo strumento che allontana inevitabilmente i due musicisti); e terzo in quanto, aldilà della musica e della sua indubbia capacità di elevare la chitarra a simbolo di una generazione, il portato di Hendrix non sta in eccessi simili a quelli di John McEnroe con la racchetta da tennis, bensì nella sua ferma opposizione a un’America che non riusciva a riconoscere i diritti civili per gli afroamericani e alla Guerra statunitense in Vietnam (non a caso, resta mitica la sua versione di The Star-Spangled Banner a Woodstock). E la scelta radicale – politica, ma anche di vita e costumi – di Hendrix appartiene alla sua figura almeno quanto la sua capacità di reinventare il modo di suonare – e non ci sembra che Paganini avesse chissà quali posizioni politiche controcorrente.
A completamento del percorso, un salto nel bookshop, dove fanno capolino non tanto libri di musicologi ed esegesi di Paganini, ma volumi dedicati a Dalla o ad altri cantanti pop.
Forse questo è il futuro.
Pubblicato su Artalks.net, il 15 novembre 2018
In copertina: Il Manifesto della mostra tenutasi presso Palazzo Ducale, a Genova, dal 19 ottobre 2018 al 10 marzo 2019.