Al Lucca Center una personale in b/n per il maestro della Leica
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
L’attimo fuggente, quello che – se non immortalato – svanirebbe per sempre come lacrime nella pioggia. Questa la magia di Henri Cartier-Bresson, ma con una punta di insondabile ironia, che spazia dalle solitudini di Una caffetteria (2nd Avenue, Brooklyn, N.Y. City, 1947) al lusso frivolo del Ballo delle debuttanti (Hotel Waldorf-Astoria, Manhattan, N.Y. City, 1959). Inquadrature simili nella messa a fuoco del, o della protagonista di quella che potrebbe sembrare la sequenza di un film (il cinema fu, non a caso, una passione di Cartier-Bresson), emblematiche di un mondo che – in uno scatto, sempre rubato – si rivela nella sua profonda malinconia o nella sua inguaribile superficialità. Il vecchio cappello di feltro che rotola dal capo abbandonato sulla tavola della caffetteria si rispecchia nelle tre piume portate con sfrontata consapevolezza di classe dalla debuttante.
Nella stessa sala anche un altro spunto estetico che, in Cartier-Bresson, diventa visione etica. Quello della sovrapposizione delle immagini o dei piani, creata da riflessi che confondono onirico e veglia, magia e realtà – anche grazie ai suoi chiaroscuri impressionisti. In mostra, ad esempio, Vagone ristorante (Uvalde, Texas, 1947), dove il mezzo busto del barista sembra reale tanto quanto quello della modella sul cartellone pubblicitario; New York City (1947), in cui interno ed esterno, statua e persone in carne e ossa si confondono; o ancora, per i riflessi di terra, mare e cielo – che si sciolgono nell’espressione dell’uomo sul ponte di una nave – Un transatlantico sta arrivando nel porto (N.Y. City, 1959).
La composizione delle immagini, ancora più pregevole in quanto non ricostruita in studio ma colta nella fugacità del flusso vitale, si apprezza sia nelle diagonali che nei rispecchiamenti. Dalla donna afroamericana con bambina che si riflette nel Wasp con nipotino, Texas (1957); alla diagonale dei lavoratori in Manifestazione al porto (Manhattan, N.Y. City, 1946), dove le piccole figure insignificanti, sullo sfondo, sono sovrastate dalle ombre incombenti del potere, rappresentato dai poliziotti a cavallo in primo piano; e ancora, il busto di donna, sdraiato sulla spiaggia di Coney Island (Brooklyn, N.Y. City, 1946), ripreso dall’alto e parzialmente celato da due corpi maschili che, nella posizione escludente, denunciano imperio e dequalificano la donna a oggetto, lasciando alla vista solo il reggiseno del costume.
L’ironia – l’atteggiamento sottilmente sornione – si legge in diversi scatti che rivelano le profonde contraddizioni di un Paese, gli Stati Uniti, che Cartier-Bresson percorse in lungo e in largo, a più riprese, per decenni. Henri sembra involontariamente sorridere, e invitare il visitatore al sorriso, quando mostra la sorpresa e la perplessità di una suora di fronte a La danza di Henri Matisse al Museo di Arte Moderna (Manhattan, N.Y. City, 1965); o il rigato che caratterizza la maglia del ragazzino, che osserva pensieroso la fantasia simile della tuta del pupazzo in Taos (New Mexico, 1947); o ancora, la gamba impertinente della segretaria, nascosta da un paravento, che si contrappone alla seriosità dell’uomo alla scrivania (forse il suo capo) in Bankers Trust, (Manhattan, N. Y. City, 1960); per finire con il cartello Jesus is coming soon che campeggia, presagio irridente, in mezzo a un deposito di auto abbandonate in Knoxville (Tennessee, 1947).
Il ritratto è per Carter-Bresson cifra dai rimandi pittorici e racconto di un mondo che scorre sotterraneo. La bellezza pacata della giovane afroamericana di Domenica di Pasqua (Harlem, N.Y. City, 1947); la malinconia di Marilyn, durante le riprese de Gli spostati (Nevada, 1960); lo sguardo sornione di Alexander Calder (Sache, Francia, 1970); i chiaroscuri ambientali che si riflettono sul volto di Robert Oppenheimer (Usa, 1958) o di Ezra Pound (Usa, 1971); la signorilità sudista di William Faulkner (Oxford, Mississippi, 1947). Una posa rilassata, uno sguardo indagatore, un animale domestico, un mezzo sorriso, una ruga stizzosa, una fronte corrugata: basta un dettaglio al fotografo per comunicare l’uomo o la donna, nascosto dietro al personaggio pubblico o al volto sconosciuto colto tra la folla.
Forte anche la denuncia sociale, nei tanti scatti dedicati alle classi più povere; ai bambini abbandonati nella desolazione di città non più a misura d’uomo; ai carcerati in isolamento; agli occhi tristi di donne che paiono violate, perse, forse picchiate, sempre ferite; ai disoccupati; ai vecchi solitari; agli ubriachi abbandonati sui marciapiedi delle metropoli – fredde e taglienti come i loro grattacieli. Una società devastata, quella statunitense, lacerata dalla Grande Depressione (gli scatti del ‘35), le disuguaglianze economiche e il razzismo, eppure una never ending story della quale Cartier-Bresson sembra non essere mai sazio. Cantore triste e curioso di questa nostra umanità.
Pubblicato il 16 giugno 2018 su Artalks.net.
In copertina: Foto di Gerd Altmann da Pixabay.