Autarkia “La tradizione è custodire il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler)
di Luciano Uggè
Pensando a Napoli viene subito alla mente Pompei – o Ercolano. Il Museo Archeologico Nazionale, grazie alla lungimiranza del suo Direttore – Paolo Giulierini – apre le porte alla contemporaneità con la personale di Aron Demetz, Autarkia, in questi giorni in esposizione nelle sale dedicate alle statue degli horti transtiberini, de La Farnesina, che rimandano immediatamente a quei corpi trasformati in still life dalla lava.
Iniziamo da qui il nostro viaggio nel mondo dell’arte che, da sempre, è specchio delle pulsioni e passioni umane. L’attimo fuggente (legno di cedro carbonizzato, 2010) di Aron Demetz – non solamente nella posizione sdraiata delle figure, nella raccolta sofferenza, quasi fetale, della donna sul fianco, ma soprattutto nella scelta della trattazione del materiale, che rende un monoblocco piedistallo e figure, uniformando nel legno carbonizzato soggetto e oggetto – si sposa al Piccolo donario Pergameno (copia romana del II° secolo) e ricongiunge per affinità elettive la sofferenza umana dell’antichità classica con quella contemporanea, in un discorso emozionale senza soluzione di continuità – come sottolinea il direttore del Museo Archeologico, Paolo Giulierini, che ravvisa proprio nella tematica della comune sofferenza il fil rouge tra reperti archeologici presenti nel Museo e le sculture contemporanee di Demetz.
E forse non a caso, sulla parete laterale, tra i due gruppi, spicca Dioniso ebbro tra Satiri e Menadi (seconda metà del II° secolo d.C.), un bassorilievo che, tra tanta morte, rimanda al lato più vitale dell’esistenza, ai riti dionisiaci nei quali la forza espressiva recuperava il pre-logos, l’esaltazione della libertà libidica che riuniva eros e pathos. E ancora, se il fuoco – concettualmente – ardeva le membra delle Menadi, e – fisicamente – carbonizzava i corpi delle vittime della lava, è il bianco splendente del gesso di Demetz a contrapporvisi matericamente e coloristicamente. In Senza Titolo (2018) lo scultore sudtirolese ritorna – poeticamente – a quell’ardente sentimento con la scomposizione della figura che rimanda all’altro da sé – a quella parte dell’es che si risveglia grazie all’ebrezza e si libera nei Misteri Eleusini.
L’intero piano terra del Museo Archeologico Nazionale si giova di questa fitta trama di rimandi tra le sculture di epoca romana e quelle di Demetz, e sicuramente questa scelta espositiva può non solamente avvicinare all’istituzione museale persone che potrebbero non essere immediatamente interessate dall’arte classica ma, soprattutto, può aprire a nuove letture poetiche e linguistiche perché la stratificazione del sapere è inscritta nel corpo stesso delle opere artistiche e dei locali che le ospitano (come ricorda anche il Direttore).
Al piano ammezzato l’eros diventa giocoso. Dopo le sale dedicate ai mosaici della Villa del Fauno (di fattura talmente pregevole da dare l’illusione di trovarsi di fronte a opere pittoriche), ci si ritrova nelle sale dedicate alle pitture mitologiche di soggetto erotico. Dall’epoca greca a quella romana, questa tematica – spesso dai toni goliardici e ludici – ebbe grande fortuna, e vi si rintraccia un’estensione del repertorio che dagli amori di Giove si spinge fino a immagini di pigmei e alla proposizione del fallo quale oggetto portafortuna, esposto spesso all’ingresso delle abitazioni patrizie.
Salendo al secondo piano, ecco le teche che contengono oggetti di uso quotidiano e alcuni tra i quattromila esemplari della collezione di vetri, provenienti soprattutto dagli scavi di Ercolano e Pompei. Sarebbe ovviamente impossibile descrivere qui la moltitudine di utensili, ma vogliamo segnalare almeno il Cratere a volute in alabastro di età augustea; l’anforisco detto Vaso Blu, in vetro-cammeo della metà del I° secolo d.C. – di fattura davvero preziosa; e gli argenti della Casa del Menandro. 118 oggetti prodotti tra la tarda età repubblicana e la prima età imperiale, tra i quali spiccano le coppe (tendenzialmente fabbricate in coppia) in cui la lavorazione a sbalzo raggiunge la qualità del bassorilievo, trasfondendo l’arte scultorea nel campo di quella orafa. Curiosa e delicata anche la Cassetta Portagioie con elementi decorativi in avorio, di età incerta e contenente vari reperti di uso domestico, oltre a un anello d’oro. E infine, il cosiddetto Vaso di Patroclo, attribuito al Pittore di Dario e proveniente da Canosa (340/320 a.C.), a schema tripartito e con una narrazione che procede dal basso verso l’alto – quasi una prefigurazione delle future bande dessinée, per continuare con l’arguto gioco di rimandi del piano terra.
Tra le molte sale dedicate alle pitture parietali, proponiamo alcune curiosità. Ad esempio, la libertà a livello di grandezze profusa nella rappresentazione della tholos della Casa pompeiana VI del I° secolo a. C. Qui, l’architettura troneggia centralmente con le due figure umane che quasi scompaiono a latere del basamento, mentre le offerte di frutta sono sproporzionatamente grandi. In questo tempo sospeso, e in uno spazio ai confini tra il reale e l’onirico, dove sono messe in discussione le basi stesse della prospettiva, si respira un’aria precocemente metafisica. La medesima che traspare, continuando sulla scia (forse irriverente ma stimolante) del gioco di rimandi, nel dipinto della Tavola con i premi dei giochi atletici, affiancata da un cratere metallico di dimensioni, anche queste, sproporzionate (proveniente dalla Villa di Boscoreale).
Le ardite architetture che permettevano al Tintoretto di esacerbare la prospettiva in diagonale, negli affreschi di queste sale dialogavano con gli elementi reali delle abitazioni (porte o finestre) e aprivano la vista dello spettatore con scenografici trompe l’oeil, come nel caso dell’affresco sempre proveniente della Villa di Boscoreale.
E se si vuole passare dal gioco all’approfondimento, non mancano pannelli informativi accurati. Interessante, tra gli altri, un piccolo pannello nella Sala LXVI che spiega la tecnica della pittura antica e, precisamente, quali erano i colori utilizzati e come si ottenevano. Mentre, in un altro, sono descritti tutti i passaggi successivi, necessari per effettuare gli affreschi, il ruolo della bottega e le competenze del pictor parietarius (un prototipo del disegnatore grafico o tecnico) e del pictor imaginarius (che poteva andare aldilà del ruolo di copista, liberando la propria creatività e, persino, abbandonando la tavola su cavalletto per dipingere direttamente a parete sull’intonachino).
In questa e nella sala successiva anche i rarissimi esempi di pittura su marmo, con le famose Giocatrici di astragali dell’ateniese Alexandros, proveniente da Ercolano.
La descrizione del Museo Archeologico Nazionale di Napoli è un’esperienza che non si può esperire in una breve recensione, così come la sua visita non si può esaurire in una sola giornata. L’educazione alla bellezza ha bisogno di tempo.
Pubblicato (con minime modifiche) su Artalks.net, l’8 giugno 2018.
In copertina: Aron Demetz, foto di Luciano Uggè (tutti i diritti riservati, vietata la riproduzione).