A Palazzo Blu di Pisa, la bella mostra curata da Stefano Zuffi
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
La mostra si apre su un labirinto, una di quelle architetture che hanno reso Escher famoso, e che rimanda forse inconsapevolmente alla Mezquita di Cordova, abitata da fantasmatiche immagini proiettate su pannelli mobili. Lo spettatore si cala, quindi, da subito nell’atmosfera onirica del maestro fino a giungere di fronte a uno specchio, simbolo dell’enigma per eccellenza: il sé. Perso tra colonne e forme fantastiche, eppure posto di fronte all’unica realtà insieme tangibile e intangibile, la morte: il memento mori nell’occhio che scruta dalla parete di fondo. “Mentre disegno mi sento come un medium controllato dalle creature che sto evocando. È come se esse stesse scegliessero le forme in cui apparire”, avverte lo stesso Escher e siamo già perfettamente in sintonia con l’esperienza che andremo a vivere nelle sale di Palazzo Blu, ottimamente illuminate e più accoglienti del solito.
I primi lavori in esposizione sono incisioni su linoleum e xilografie, dove l’arabesco e il rigato, l’arzigogolo e la voluta, la moltiplicazione, il rispecchiamento e il doppio, il gioco à la Arcimboldo, cominciano già a caratterizzare lo stile di un Escher ancora ventenne. Da notare, Otto teste (xilografia, 1922) e la più tarda Cielo e acqua II (xilografia, 1938). Con quest’ultimo lavoro ci troviamo immersi nell’universo metamorfico dell’artista, dove i passaggi tra elementi e forme si fondono e contrappongono in un dialogo senza soluzione di continuità. Molto suggestivi anche Giorno e notte (xilografia, 1938), in cui uccelli in volo si confondono e si integrano – loro, creature aeree – con gli appezzamenti dei terreni coltivati; Rettili (litografia, 1943), composto da una serie di coccodrilli in miniatura che emergono da e riaffondano in altri, disegnati dall’artista su un foglio di carta: gioco insieme illusionistico e poetico; e ancora, Sogno (o Mantide religiosa, xilografia, 1935), nel quale lo humour nero di Escher si coniuga con la sua vena più teatrale, mettendo in scena la devozione dell’insetto in preghiera sul monumento funebre dell’alto prelato. In questa sezione, anche Metamorfosi (xilografia, 1939/40, lunghezza quasi 4 metri). L’evoluzione sembra trovare espressione sintetica in quest’opera fondamentale che, nell’ultima parte, riporta il discorso sul versante del divertissement, con quegli edifici che si trasformano in scacchi – gioco da tavola insieme cerebrale e matematico che appare vicino alle elaborazioni dello stesso artista.
Una sezione a parte è dedicata al lato più infantile di Escher, alla sua rivendicazione anche poetica di conservare un lato bambino. Il gioco qui è quello del riflesso, ancora più spiazzante perché irreale, come in Natura morta con specchio (litografia, 1934), dove la prospettiva è decisamente onirica e, nel contempo, fortemente intimistica. Da notare anche, seppure nella sala successiva, Specchio magico (litografia, 1946), in cui il passaggio verso un’altra dimensione è assicurato dal riflesso del sé nell’altro da sé, mentre l’universo si popola di piccoli esseri fantastici.
La sala successiva è dedicata alle geometrie, a quell’iconografia che, come l’araba, si rivolge ai ritmi propri delle forme, fino a giungere al mistero del Nastro di Möbius, ossia di una superficie non orientabile: in mostra Nastro di Möbius I, 1961; e II, 1963 (entrambe xilografie). Quest’ultimo, intitolato anche Formiche rosse, coniuga il rimando all’infinito con l’operosità frugale tipica dell’insetto e il lavorio di una vita sembra un lento e inesorabile avvitarsi su se stessi. Nella medesima sala, da notare la maestria tecnica e l’originalità creativa di Sempre più piccolo (xilografia, 1956) e Planteroide tetraedico (xilografia, 1949). E in un universo euclideo, anche le stelle non possono che trasformarsi – nella poetica di Escher – in forme geometriche (Studio per stelle, xilografia, 1948).
A seguire, alcune sale dedicate ai paesaggi scoscesi e dirupati, alle torri svettanti, ai mari del Mediterraneo – che Escher ha visitato e amato, abitando a lungo in Italia. Dalle forme geometrizzanti e quasi astratte di Blocchi di basalto lungo il mare (xilografia, 1919) alle complicazioni e agli arzigogoli che restituiscono un paesaggio della mente, insieme solitario e funereo, in Vitorchiano nel Cimino (xilografia, 1925), fino all’ardita prospettiva dall’alto del felino in Corte, Corsica (xilografia, 1929) e alle costruzioni rocciose, da rosa del deserto, di Bonifacio, Corsica (xilografia, 1928), che rendono appieno gli scorci di una natura selvaggia eppure domata dall’uomo, in grado di edificare letteralmente sul nido del cuculo. E ancora, Scilla (xilografia, 1931), dove il gioco di compenetrazione tra natura ed edifici si moltiplica nei rispecchiamenti delle rocce sul mare e nella restituzione geometrizzante di un cielo carico di nubi (che rimanda alle forme verticalizzanti del succitato Blocchi di basalto). E ancora, Venezia (xilografia, 1936), per quel traforato che rammenta le architetture moresche ma impregna di sé, matericamente, il cielo e la laguna.
Tratto preciso e delicato chiaroscuro caratterizzano le due litografie Mani che disegnano (1948) e Tre sfere II (1946), ospitate in una saletta a latere e che dimostrano la capacità poetico-espressiva di Escher (a lungo considerato più un matematico o un traduttore di forme matematiche che non un artista). E ancora, interessanti le litografie dei due paesaggi abruzzesi, Strada a Scanno e Castrovalva (entrambe del 1930), prove artistiche che dimostrano la capacità del maestro di restituire un senso di raccoglimento, un tempo sospeso in ataviche memorie.
Al piano superiore spazio alle architetture fantastiche. Le prospettive curve che compartecipano piani e dimensioni, in un’immanenza fantastica, come in Galleria di stampe (litografia, 1956); i giochi illusionistici di Convesso e concavo (litografia, 1955), in grado di restituire la complessità di quegli universi brulicanti e vagamente esotici à la Gentile Bellini o delle ardite architetture à la Tintoretto. E ancora, Su e giù (litografia, 1947), che mette in discussione non solamente il nostro punto di vista sulla realtà quanto la visione stessa della realtà.
Tra le altre, due opere argute come Belvedere (litografia, 1958), e Ascendente e discendente (litografia, 1960) – immagini sublimate della nostra società, dell’incredibile azzeramento o deviamento prospettico che subiamo noi e le nostre azioni. Relatività (xilografia, 1953/57) raggiunge forse l’apogeo degli studi di Escher sulle possibilità espressive di questo mondo alla rovescia, laddove la quotidianità dei commensali a tavola o dei giovani a passeggio convive simbioticamente con l’azzeramento del reale e con la fuga dallo stesso. Mentre Altro mondo (xilografia, 1947) è l’aspirazione poetica del maestro dei Paesi Bassi verso un mondo altro, più vicino a noi e al nostro subconscio di quanto si possa immaginare, estraneo ai paradisi religiosi ma prossimo alle stelle.
In mostra anche una scultura ispirata al triangolo di Penrose e all’effetto ottico che lo stesso riesce a trasmettere (ossia la scoperta che una struttura chiusa può essere, in realtà, aperta e abitabile; ovvero, che il cambio di prospettiva può mostrare un universo di senso altro, a noi sconosciuto). In esposizione anche alcune acqueforti di Piranesi che, nelle Carceri d’invenzione (1761) moltiplica gli spazi attraverso giochi di scale, pianerottoli, ambienti, sovradimensionati eppure opprimenti a confronto delle minute e anonime figure umane.
Tra le ultime opere in mostra, nella sezione dedicata alla natura, si nota nuovamente l’influsso dell’Art Nouveau nelle prime opere di Escher, in Bosco vicino a Menton (xilografia, 1921) – inquietante come le volute e le spire dei cieli di Van Gogh. E ancora, si può ammirare la magia del minuto in Fiore spinoso (xilografia, 1936); la compenetrazione degli elementi – aria (nel riflesso dei rami), acqua (la superficie cosparsa di foglie) e universo sottomarino (il pesce) in Tre mondi (litografia, 1955); e in Pozzanghera (xilografia, 1952), dove sembra persino di trovarsi di fronte a un mondo alla rovescia, con le orme umane che solcano cieli lunari. E infine, il gioco dei riflessi sull’acqua di Superficie increspata (incisione su linoleum, 1950).
In chiusura la serie dei ritratti, in cui uno – del ’23 – raggiunge quasi la profondità inquietante di quelli di Van Gogh.
Mostra molto curata: un excursus oltremodo appassionato e appassionante di un artista che è stato a lungo sottovalutato per la sua creatività e perizia tecnica. Come se si potesse criticare Dante per la capacità di inventare neologismi e la precisione della sua metrica.
Pubblicato su Artalks.net il 20 dicembre 2017
In copertina: Foto di Arek Socha da Pixabay.