Tre percorsi per la mostra fotografica più cool dell’anno
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Primo percorso: obiettivo migranti
Iniziamo il nostro itinerario nelle mostre fotografiche in questi giorni a Lucca, con i vincitori del World Press Photo 2017 e la bella collettiva sul tema delle migrazioni – di ieri come di oggi.
Doveroso partire da Chiesa San Cristoforo, non solamente perché è la sede dei vincitori del Concorso distribuiti in varie categorie – dai reportage alle foto singole, dallo sport e la natura alla cronaca di guerra – ma anche perché sede della biglietteria della manifestazione, dove si può acquistare un pass per gustarsi con calma, su più giorni, le varie esposizioni. Scelta, questa, doppiamente sagace in quanto la maggioranza dei luoghi espositivi non è per nulla riscaldata e, dopo un paio d’ore in piedi davanti ai tabelloni, ci si sente praticamente distrutti.
Partiamo dalla Foto dell’anno Spot News (1° premio Reportage), che campeggia anche sulle locandine, e ritrae l’assassinio dell’ambasciatore russo Andrey Karlov, ossia il poliziotto turco Mevlut Mert Altintas. Il fotografo, Burhan Ozbilici, sembra voler esaltare con la sua perfetta messa a fuoco l’egotismo del killer, mentre la composizione dell’inquadratura rasenta i posati di un film d’azione a stelle e strisce. Da questa foto trasuda un senso apologetico della violenza politica e, guardandola bene, ci si domanda come si sia potuto dare un premio a chi fotografa il protagonista di un omicidio, mentre lo rivendica col dito puntato verso l’alto e in posizione darock star. Ovvio plaudire alla prontezza di riflessi del fotografo, ma quando si dà un premio che ha anche un valore etico, bisognerebbe chiedersi se un’immagine simile sia davvero giornalismo o apologia di reato.
Di segno completamente opposto, in quanto documenta chi la violenza la subisce, quotidianamente, e spesso nel silenzio dei mass media, Laurent Van der Stockt (1° premio Foto singole, nella sezione Notizie generali), che punta l’obiettivo su una bambina di Mosul, letteralmente terrorizzata e appiattita (quasi a proteggerla o a cercare un’impossibile protezione) contro il muro della sua casa semidiroccata. Anche Magnus Wennman (1° premio Foto singole, nella sezione Volti) ci regala il viso di una bambina, Maha, di cinque anni, nel campo profughi di Debaga, dove la bellezza dell’infanzia si nasconde dietro a uno sguardo che sembra arrendersi di fronte a un mondo estraneo, incomprensibile, violento.
Per le Storie d’attualità (3° premio Reportage), Peter Bauza mostra le tinte sgargianti che rivestono la miseria della favela brasiliana di Jambalaya. L’onnipresente carrello del supermercato è vuoto. Un cavallo, stramazzato a terra, giace abbandonato accanto allo châssis di un’auto sventrata. Lo sfascio di un Paese ricchissimo di materie prime, che non riesce a dare risposte nemmeno basiche alla maggior parte della sua popolazione. Dal Brasile capitalista (buono) alla Cuba comunista (cattiva). Il 1° premio Reportage, nella sezione Vita quotidiana va a Tomás Munita, che documenta il lungo viaggio dei cubani, da L’Avana a Santiago, per accompagnare il feretro di Fidel. Di fronte a noi il dolore di una popolazione che si rende perfettamente conto di vivere in un Paese con un sistema scolastico e sanitario eccellenti (fatto non scontato nei Paesi maggiormente industrializzati, raro in Sudamerica), che vive nella precarietà a causa dell’embargo imposto dagli Stati Uniti – dove sanità e istruzione sono appannaggio solo di chi può permetterseli.
Per superare gli stereotipi, ecco anche i due volti dell’Iran – documentati con una sottile dose di ironia da Hossein Fatemi (2° premio nella sezione Progetti a lungo termine). Donne velate opposte ad altre che si truccano e pettinano in un salone di bellezza; donne appartenenti alla famigerata polizia morale opposte a due ragazze che si baciano in un locale pubblico, o a un gruppetto di giovani donne e uomini che fumano il narghilè, tutti insieme, sotto una tenda trasparente. Si respira un’aria sessantottina tra le nuove generazioni iraniane, che sembrano rifiutare sempre più le imposizioni di un regime teocratico, pervicacemente legato al potere totalitario grazie ai dogmi di una religione asfissiante.
Molto belle, come ci si attenderebbe, le fotografie dedicate alla Natura – anche se, più che la meraviglia dell’universo che ci circonda, sembrano rivelare i pericoli causati dai comportamenti umani. Il 1° premio Foto singole se lo aggiudica Francis Pérez, che è riuscito a scattare una foto quanto mai difficile a una tartaruga rimasta impigliata in una rete da pesca. Mentre il 2° va a Nayan Khanolkar, che dedica un primo piano dai colori caldi e suadenti a un leopardo che si aggira nella periferia di Mumbai, tra ciabatte e rifiuti, nella fogna a cielo aperto di un vicolo fatto di tuguri in terra battuta. Nella stessa sezione, il 1° premio Reportage va a Brent Stirton, che racconta il veloce declino della popolazione di rinoceronti in Sudafrica, dove si stima la presenza del 70% di esemplari viventi (nel 2007 si registrava la perdita annua di 17 animali, nel 2015 la cifra era salita a 1175). Emblematica la foto del rinoceronte morente dopo che gli è stato tagliato di netto il corno: la vivacità dei colori e il primissimo piano del muso della bestia rendono ancora più crudele l’immagine di violenza.
Per la sezione Sport, non solamente carambole e tuffi impossibili. Il 1° premio Reportage è andato a Giovanni Capriotti con una serie in bianco e nero (mezzo espressivo che sembra tornato prepotentemente in auge), autoironici e dedicati al Muddy York Rugby Football Club, il primo club rugbistico gay-friendly di Toronto. Mentre il 2° premio se lo è aggiudicato Michael Hanke, raccontando il dietro le quinte dei tornei giovanili di scacchi. Sempre in bianco e nero, vediamo un bambino che grida con piglio semi-isterico (per la vittoria o mentre cerca di innervosire l’avversario?); una bambina in preghiera prima di un incontro; l’allenatore adulto che dà gli ultimi consigli al ragazzino, in posa quasi da confessionale.
Daniel Berehulak conquista il 1° premio Reportage nella sezione Notizie generali, occupandosi della guerra al narcotraffico, voluta dal neoeletto Presidente delle Filippine Rodrigo Duterte. Immagini notturne flashate di rosso come il sangue che imbratta le strade. O di blu, sotto una pioggia battente, con personaggi notturni sospesi in un’atmosfera rarefatta à la Blade Runner. Sullo stesso argomento, emotivamente intensa l’inquadratura dall’alto di Noel Celis (3° premio Foto singole per le Notizie generali), con i prigionieri di Quezon City a Manila, costretti a dormire sulle scale – in un penitenziario che dovrebbe contenere 278 reclusi e ne ospita 3800.
Unico sottile filo di speranza in una marea di orrori che ormai ci stringono da ogni dove, il 1° premio per i Progetti a lungo termine, assegnato a Valery Melnikov per I giorni neri dell’Ucraina: tra abitazioni bombardate e semidiroccate, un uomo innaffia una piantina in mezzo a una strada asfaltata. E ancora, il 1° premio Foto singole per le Storie d’attualità, vinto da Jonathan Bachman, con un’inquadratura che sottolinea la compostezza dignitosa di una ragazza di 27 anni, Iesha Evans, mentre affronta a mani nude e con un leggero vestito estivo che le svolazza intorno, due poliziotti in tenuta d’assalto, durante la manifestazione contro le violenze della polizia sulla popolazione afroamericana, tenutasi a Baton Rouge il 9 luglio.
Seconda tappa del nostro percorso, Palazzo Guinigi – dove si tengono due personali. La prima, di Paolo Verzone, si intitola Cadetti. Dopo tutti i reportage di guerra, documentati nel World Press Photo 2017 e disseminati dai massacri compiuti dai militari, la serie dedicata agli appartenenti alle Forze Armate stride nel proprio nitore posato e fasullo. In particolare, la giovane marinaia greca sulla scalinata ha la patinata levigatezza delle pubblicità di Jean Paul Gaultier.
La seconda personale è dedicata a Francesco Fossa – Lybia, sulle tracce del Paziente Inglese. In realtà un dittico, composto dalle foto scattate da un ufficiale degli Alpini, di stanza nell’oasi di Cufra e sui contrafforti di Auenàt, tra il ‘33 e il ‘35, e del nipote (Francesco Fossa, appunto), che ha viaggiato dalla città libica di Ubari fino al deserto di Maridhet, sul confine algerino, per poi raggiungere la città-oasi di Gadames (tra Algeria e Tunisia) e le rovine romane di Sabrata, Patrimonio dell’Umanità Unesco. Interessante il contrasto tra il piglio documentaristico del nonno che ritrae le lunghe ombre delle carovane nel deserto, i volti incorniciati dai copricapi tradizionali e, con piglio autoironico, i militari (probabilmente italiani) che pasteggiano nel deserto goliardicamente seduti a tavola. E il nipote, che si sofferma su rovine e deserti, esprimendo un senso d’infinito adagiato su distese sabbiose, dove campeggiano chiaroscuri espressivi. Le sue immagini, più pittoriche che fotografiche, più poetiche che giornalistiche, ritraggono sperduti paesaggi della mente – dove è dolce il naufragare.
Ultima tappa di questa prima giornata dedicata al PhotoLux, è Palazzo Ducale, dove è esposta una collettiva dedicata al Mediterraneo o, meglio, ai migranti che solcano il Mare Nostrum nella speranza di un approdo sicuro e un futuro migliore. Ad aprire la mostra un collage di immagini in video, montate partendo da riprese televisive. Come in altri spazi, qualche sedia non avrebbe guastato, così come un minimo di riscaldamento.
“The Mediterranean is a vast archive, an immense grave”, vergava lo scrittore jugoslavo Predrag Matvejević, e sono queste sue parole a fungere da sottotitolo a I-Σmigrazioni, una raccolta multimediale che abbraccia un secolo di storia e intesse materiale fotografico con testi, documenti, sculture, dipinti di artisti italiani e stranieri.
La mostra si apre con un’immagine emblematica di Giorgos Moutafis, scattata ad Agathonisi nel 2009: la preghiera di un migrante, appena sbarcato sano e salvo sull’isola del Dodecaneso. A pochi passi, quasi una Madonna protegge con un lembo della coperta isotermica una bambina: l’iconografia sacra si sposa in maniera pregnante con l’immagine scattata da Alessandro Penso, a Lesbo, nel 2015. Sempre sulle migrazioni verso Lesbo, gli incisivi bianco e nero di Angelos Tzortinis, del 2015. L’assenza di colore acuisce la capacità della fotografia di trasmettere emozioni a fior di pelle, documentando una realtà talmente scabra e urticante da rifuggire a qualsiasi pennellata. E ancora, Enri Canaj, nello stesso periodo e sulle stesse coste, punta l’obiettivo su una bambini morta, abbandonata tra le rocce come un rifiuto, spiaggiata come un cucciolo di foca sfuggito al bracconaggio, ma morto nel tentativo.
Coloristicamente bella e pregna di significati la fotografia di Liu Bolin, Target, Memory Day (2015). Vi si ritrae un’installazione umana composta da corpi distesi sull’arenile, coperti di quella terra che, per molti migranti, non è solamente un luogo d’arrivo bensì uno spazio mentale dove ripensarsi e ricostruire un’esistenza davvero umana.
Gli oggetti più disparati, da un pettine a un biberon, compongono Lampedusa, di Davide Monteleone (2015). Tanti piccoli quadri che raccontano, ognuno, una storia personale e, tutti insieme, la realtà tragica di milioni di esseri umani ridotti a oggetti (da confrontare con la foto di Daniel Castro Garcia, che inquadra una miriade di abiti abbandonati sulla costa in Lampedusa, 2015).
Interessante il lavoro di Caroline Gavazzi, Riace (2016), che sovrappone ai volti dei migranti fotografati, le loro impronte digitali (con evidente rimando a quella sostituzione emotiva e intellettuale, nell’immaginario fobico nel quale stiamo vivendo, delle persone con una parte delle stesse).
In mezzo all’orrore, non manca qualche spiraglio di poesia. Apre il cuore l’immagine in bianco e nero di Achilleas Zavallis (Reszke, 2015), che fissa l’attimo in cui alcune tende di fortuna, sospese a mezz’aria, vengono portate via da una folata di vento. Quasi presagio di libertà. Quella libertà rivendicata per le merci, vietata agli esseri umani. E ancora, Alessandro Penso (Belgrado, 2017) ci restituisce un giovane, che ha ricostruito il proprio spazio domestico all’interno di un vagone ferroviario abbandonato, su una linea morta, in mezzo a un paesaggio imbiancato – in cui si staglia, monito e segno della presenza umana, il filo spinato. Si respira aria di campi di sterminio, in questa Europa che, assieme al Muro, avrebbe dovuto abbattere qualsiasi frontiera – fisica e mentale. I treni, del resto, sembrano essere assurti al ruolo di protagonisti in questa Europa delle migrazioni – come lo è, la Bestia in Messico. Si seguono i binari per non perdersi. Si tenta di arrampicarsi attraverso un finestrino per ottenere l’agognato passaggio (Sergey Ponomarev, Confine serbo-croato, 2015).
Da un punto di vista estetico, vanno notate le foto di Santi Palacios, sempre coloristicamente eccellenti, e di Massimo Sestini. Oltre a quelle di Giulio Piscitelli, nel Deserto del Sahara (2014).
Una sezione a se stante, quella dedicata alla memoria. Ermanno Rea e Gianni Berengo Gardin documentano la migrazione interna e verso l’estero di milioni di italiani – dalla fine dell’Ottocento agli anni 70 del Novecento. Quale differenza esisterebbe tra i nostri connazionali, seduti per terra tra ceste e sacchi di juta legati con lo spago, sporchi, trasandati, con indosso tutti gli abiti che possedevano, al porto di Genova nel 1910, e i migranti fotografati oggi sui barconi al largo nel Mediterraneo? I panni stesi su corde di fortuna sui ponti di terza classe, nugoli di bambini allo sbaraglio, valigie di cartone e una tristezza infinita negli occhi. O ancora, raggiunta l’America (come si diceva una volta), bambini che si addormentano sui banchi delle scuole serali. Quelli erano gli anni in cui gli italiani compravano le guide per migranti – al posto di quelle turistiche. Ma, in fondo, “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, diceva Tancredi: oggi sono i nostri cervelli a emigrare, magari in aereo e con un contratto in tasca, ma il risultato finale non varia.
Secondo percorso: il viaggio continua
Nuova tappa di questo dossier dedicato al mondo della fotografia d’autore. Alla Fondazione Banca del Monte di Lucca va in scena l’universo ludico e felice di un francese, che ha percorso il Novecento senza accorgersi delle sue contraddizioni. Contraddizioni, al contrario, al centro del mirino nelle tre personali a Villa Bottini.
Nei bei locali del Palazzo della Fondazione Banca del Monte, si può ammirare la monografica dedicata a un uomo, Jacques Henri Lartigue, padrone del suo tempo, e che, grazie al benessere economico della sua famiglia, ha potuto dedicare tutta la vita a essere felice, inseguendo le sue molteplici passioni, dalla pittura alla fotografia fino alla scrittura – quasi ossessiva – del suo diario.
Interessante il documentario che ne racconta l’intera vita e il mondo dell’alta borghesia al quale Lartigue è sempre appartenuto (purtroppo, senza sottotitoli in italiano).
Inseguire Lartigue è scoprire costumi e facezie, curiosità e passatempi di un universo che non ha mai dovuto preoccuparsi di nulla se non del proprio bien–être (nonostante due conflitti mondiali, la Guerra fredda, omicidi illustri quali quello di John F. Kennedy, la minaccia nucleare o la Guerra statunitense in Vietnam).
In questo solco di superficiale piacevolezza, nella sezione dedicata agli sport, da notare alcune foto che ritraggono lo Sci Joering (Chamonix, 1913) – una specie di sci nautico, da praticarsi sulla neve, facendosi trainare da un cavallo. Altra curiosità d’epoca, i ritrovi dei velivoli senza motore (Combegrasse, agosto 1922). Il desiderio di sollevarsi da terra è, del resto, una delle manie del giovin signore, documentato anche nei molti scatti dedicati al salto – non solo a livello agonistico, ma come espressione della gioia di vivere, che sembra percorrere come una vena sotterranea l’intera esistenza di Jacques. Accanto a questa, l’altra passione condivisa dall’intera famiglia Lartigue, ossia quella per la velocità – come dimostra la serie sulla Hispano Suiza 32 HP (1927).
Negli anni giovanili, tra le ossessioni del fotografo anche quella per l’eleganza femminile, in mostra grazie alla serie di ritratti di signore avvenenti con copricapi improponibili ma alla moda, che passeggiavano in Avenue des Acacias e sul Bois de Boulogne (Parigi, 1912) – vago il sentore de la Recherche di Marcel Proust.
Molte le foto dedicate all’amico Sacha Guitry, con il quale trascorse più estati. Tra gli altri volti famosi, anche quello di Picasso a Cannes, nel ‘55.
Per la serie autoritratti (vezzo che Jacques si concedeva fin da bambino), interessante Ubu posa per i miei quadri sportivi, dove l’egocentrismo dell’artista si fa al quadrato: il fotografo posa per l’obiettivo (mentre il povero modello si presta alla doppia posa in una posizione a dir poco scomoda). E ancora, il Ritratto (Rouzat, luglio 1923), dove Jacques, che sta dipingendosi un autoritratto, concede un autoscatto a se stesso – riflesso nello specchio. Più o meno allo stesso livello di egocentrismo, René a Juan-les-Pins, del ‘31: Jacques fotografa il riflesso dell’amante nello specchio, mentre gli volta le spalle, ma l’immagine della donna è ben visibile in una foto con dedica sul comodino che le sta a fianco.
Florette, bellissima, con le sue unghie smaltate e la bocca sensuale (1944) completa la mostra. La gioventù esuberante e fascinosa dell’ultima moglie di Lartigue abbaglia in due banchi e neri che rimandano già alle dark lady dei film di Bogey. E il gusto del fotografo si sposa perfettamente all’estetica cinematografica del tempo.
Di segno diametralmente opposto il percorso per immagini di Villa Bottini – dove sono presenti tre personali (oltre a quattro scatti di Gabriele Stabile) che raccontano la nostra contemporaneità, e gli usi e costumi delle genti che si affacciano sul Mediterraneo (lontanissimo dagli splendori della Cannes invasa dalle star del cinema francese durante la Seconda guerra mondiale, tanto amata da Lartigue).
Il primo autore, Albert Watson, fotografo scozzese ben noto per i suoi ritratti patinati di star, abbandona per un attimo il côté glamour della professione, per esporre una serie di scatti, in bianco e nero, dedicati al Marocco. L’attenzione si focalizza sui muri e sulla povertà che racchiudono – a proposito, si vedano Uomo seduto nel cimitero e Mura della Medina (entrambe scattate a Marrakech nel 1988) – ma, soprattutto, sui volti: lo sguardo penetrante ed enigmatico di Abas Chaeai, incantatore di serpenti (Marrakech, 1977) e quello di Zahra Bent Abdellah Essouira (Marocco, 1998) che, velata, può esprimere la sua aspirazione a voli pindarici solo attraverso quegli occhi scuri persi nell’orizzonte, oltre l’obiettivo del fotografo, oltre lo sguardo dello spettatore. E ancora, Aicha Haddaoui on the road to Marrakech (1977), bimba costretta in un mondo di uomini, che sfugge e sfida. Mentre è notevole, per la sua pacatezza, la figura di Hamid, venditore di minerali sulla strada per Taroudant (Marocco, 1998), che si staglia nitida e orgogliosa di fronte a un cielo vuoto e infinito.
La seconda personale è firmata da Bernard Plossu, nato a Dalat – in Vietnam – e cresciuto tra Parigi e il Messico. Il suo viaggio lungo le coste e isole del Mediterraneo ha l’essenzialità e il senso di sospensione che possono, in alcuni casi, rimandare alle esplorazioni metafisiche di un Carrà. Immagini di paesaggi, rocce o oggetti dimenticati, persi nello spazio e nel tempo, che assumono valore in sé in un confronto tra forme geometrico/matematiche e la fisicità di una solitudine atavica, mentre la presenza umana è rintracciabile solo in quello che lascia, nel suo passaggio fugace, dietro di sé. Da notare, Nisiro, Dodecaneso (Grecia, 1989), San Domino, isole Tremiti (1989), Marsiglia, Provenza (Francia, 1999). E ancora, la solitudine che trasuda dalle rocce di Andalusia (Spagna, 2002), la stratificazione del tempo in Corbières, Linguadoca-Rossiglione (Francia, 1986), o di Favignana (Sicilia, 2009). La mano del tempo che passa e riapre porte o cancelli, che l’uomo aveva chiuso – Linosa (Sicilia, 2004) e Lipari (Sicilia, 1988).
Dal bianco e nero di Plossu, si passa ai colori sgargianti del belga Nick Hannes, che fotografa il contrasto tra la vita e le aspirazioni degli abitanti delle coste mediterranee. Il suo obiettivo registra luoghi dove la guerra non ha risparmiato nemmeno la possibilità di fruire dei beni primari – si vedano Sirte (Libia) e Misurata (sempre Libia), ove campeggiano rispettivamente i resti del serbatoio di un acquedotto, e i muri di un negozio dove, tra gli zainetti appesi, si vedono i buchi lasciati dai proiettili di quelle guerre che dovrebbero portare la democrazia, e al contrario servono per accaparrarsi le materie prime dei Paesi ‘liberati’. Ma il discorso di Hannes va aldilà della denuncia da reportage, mettendo in primo piano il contrasto tra i modelli di vita di coloro che impugnano le armi e di coloro che se le vedono puntare contro. Sulle pareti, immagini patinate eppure volutamente kitsch di viaggi di piacere, come in Crociera mediterranea (2014); di divertimenti volgari e pacchiani (Marbella, Spagna); o di ragazze in short che ammiccano mostrando la bottiglia di uno spumante (o champagne) in paradisi fiscali come Montecarlo (Principato di Monaco, 2010). Ma i viaggi non sono solo di piacere: ci sono quelli per la sopravvivenza, dove agli yacht e alle navi da crociera zeppe di turisti annoiati e piscine in stile tinozza si sostituiscono muri e sbarre (Atene, Grecia, 2012; e Ceuta, Spagna, 2011). I giochi sul pontile della nave (sempre Crociera mediterranea) fanno da contrappunto a quelli dei bambini nel cortile di Bayt Lahya (nella Striscia di Gaza). E in questa sinfonia disarmonica che è il Mediterraneo, spicca una moschea, sullo sfondo, con una rastrelliera di fucili ad alta precisione, in primo piano (Adana, Turchia) – dove alla bellezza fa da contraltare la violenza, dove al senso del mistero che dovrebbe, silenziosamente, effondersi nella vita fa da contrasto quella verità imposta e assoluta che produce guerre e morte – in nome di dei sempre lontani, sempre assenti, sempre egotisti, sempre maschi, sempre fasulli come le teiere celesti di Bertrand Russell.
Nel seminterrato di Villa Bottini è possibile vedere, ancora, quattro belle istantanee di Gabriele Stabile. In bianco e nero ritraggono file umane di portatori in marcia, con le loro povere cose issate in spalla o su carretti di fortuna. Un piccolo venditore, con le scaffalature quasi vuote – a causa della mancanza di merce da vendere – è emblema della penuria. Ripari improvvisati, in certe situazioni appaiono un lusso. Poche immagini che raccontano un mondo che ci circonda – che lo si voglia o meno.
Terzo percorso: si giunge alla meta
Ultime scoperte nell’universo della fotografia. All’ex Cavallerizza di Lucca sono esposte alcune interessanti personali al femminile; e nella Chiesa dei Servi il lavoro del vincitore del PhotoLux Award 2017 sul tema del Mediterraneo, Domingo Milella; oltre alla serie Land of no-return del vincitore del Leica Oskar Barnack Award 2017 Newcomer, Sergey Melnitchenko.
In un sabato soleggiato ma gelido, la prima tappa del PhotoLux è l’ex Cavallerizza, palazzina restaurata recentemente e che dovrebbe ospitare eventi vari di promozione turistica. Purtroppo, l’ambiente assomiglia più a un guscio vuoto che a un palazzo storico recuperato alla collettività. Manca di tutto – dal riscaldamento (e, immaginiamo, raffrescamento estivo) a un’illuminazione adeguata, da alcune sedie per poter vedere con calma le foto dei partecipanti all’Intarget PhotoLux Award 2017 Challenge – proiettate in video – a una curatela che spieghi il perché della scelta delle personali in mostra (quale il filo conduttore, quale scelta etica o estetica?).
Sempre all’ex Cavallerizza anche l’esposizione del libro vincitore del PhotoBook Award 2017, che è stato assegnato a Mayumi Suzuki per The Restoration Will, libro fotografico dedicato alla sua famiglia, i cui membri sono tutti deceduti nel 2011, a causa del terremoto e del successivo tzunami che hanno colpito il Giappone.
Accanto, una serie di personali di fotografe provenienti da nazioni, culture ed epoche diverse (a parte il lavoro dell’israeliano Shai Kremer).
La giovane tunisina Rania Werda presenta Autres Miroirs. Il calligrafismo arabo fa da sfondo a donne velate, o parzialmente tali, che sembrano confondersi eppure resistere a un modello etico, oltre che estetico, che le vuole oggetti, puri arabeschi inespressivi di fronte al logos maschile, e che subiscono un processo di deindividuazione a causa di tradizioni, costumi e religioni sempre più oppressive.
Dell’italiana Eleonora Olivetti (scomparsa nel 2010), si espongono, tra gli altri, due interessanti collage dedicati alla Tunisia con una perturbante riproposizione labirintica di cielo e terra, vestigia umane e paesaggio desertico, realtà e rielaborazione immaginifica: una fusione di piani che schizza un paesaggio della mente.
Una sezione a parte è dedicata alle popolazioni dell’Italia centrale, colpite dal terremoto nel 2016. Ma più che le persone, i veri protagonisti (a parte i pompieri) sembrano essere i resti, le macerie, gli oggetti persi per sempre, eppure intatti, e una natura che, lentamente, riprende il sopravvento sulle vestigia umane. Si veda la pianta di Pietro Masturzo (1) che si fa largo tra una sedia rotta e un muro sgretolato; o il vasetto di plastica con le sue foglioline infestate di erbacce, che pare resistere imperterrito tra le macerie (Pierpaolo Bessio, 18). O ancora, i quadri rimasti appesi alle pareti di un’abitazione crollata (Andrea Picciolo, 5), e il letto rifatto con la sua trapunta a colori pastello ben stesa (Beatrice Bruni, 15).
Esseri umani con maschere di animali, in paesaggi surreali, sono i protagonisti della serie fotografica, Between Worlds, che rimanda – volontariamente o meno – alle favole di Esopo. Per Polixeni Papapetrou (australiana di origini greche) una dama coniglio si perde in un bosco à la Alice nel paese delle meraviglie (The visitor, 2012); la debuttante con faccia da dalmata si inchina ironicamente al suo cavaliere, di fronte all’entrata di un labirinto in stile Shining (The debutants, 2009); una specie di orsetta con abito da marinaretta legge, ignara della stranezza di cui è espressione, in riva al mare (The reader, 2009); due anziane coniglie (di cui una su una specie di carrozzina tra l’infantile e il paraplegico), ma con corpi di giovani educande (The loners, 2009), vanno a passeggio sugli scogli; una civetta alza le ali (ossia i lembi dello scialle), appollaiata su un albero (The Watcher, 2009). Il visitatore è assalito da un senso di straniamento, mentre l’onirico invade la realtà.
E ancora, la franco-algerina Marie Hudelot presenta Heritage-Natif. Il camuffamento come superamento della personalità individuale o come appartenenza storico-culturale? Le risposte dell’artista toccano corde diverse, dall’autoironico – vedasi Camuffamento con ananas, in cui la tovaglia a quadri sembra rimandare alla kefiah araba, mentre i colori dell’abito della modella si sposano a quelli del frutto, con un piglio quasi alla Monsanto; o La serva, essere inesistente in quanto individuo laddove la calza di lana le cela volto e personalità. Emblematica, sempre nella serie dedicata al camuffamento, la donna velata che reca sul volto anche un casco da schermitore – la duplice valenza è palese. Hudelot ricrea anche la sua storia familiare pan-africana tra passato e presente, con una serie di personaggi simbolici, quali Il leader militare o Il Re. In cui, però, all’elemento indicatore di un particolare status (come la divisa e lo scettro) fanno da contrappunto ironico elementi destabilizzanti e/o perturbanti (il velo con monete dorate e il fiocco).
Tra tutte queste personali dedicate a fotografe, in mostra anche il lavoro dell’israeliano Shai Kremer (con rimandi forse inconsapevoli alla videoarte e all’hyper pop di Laurence Gartel). World Trade Center: Concrete Abstract è composta da fotografie di grande formato realizzate, ognuna, con oltre 60 scatti sovrapposti e presi in tempi diversi. La sovrapposizione di matrice futuristica comunica più angosce che aneliti a le magnifiche sorti e progressive.
Seconda tappa della giornata e ultima di questo ricchissimo appuntamento con la migliore fotografia autorale e di reportage, nella Chiesa dei Servi di Lucca. Anche qui, si lamentano i soliti disservizi: freddo, mancanza di posti a sedere dove riposare, luce carente o non ottimale. Un’esposizione di prestigio come il PhotoLux meriterebbe indubbiamente di meglio.
In mostra, innanzi tutto, i finalisti del Leica Oskar Barnack Award 2017. Per la Francia, Emilien Urbano presenta War of a Forgotten Nation (2014), che indaga il ruolo della nazione curda nella zona di conflitto tra Siria, Iraq e Turchia. Le fotografie di Urbano sembrano composizioni geometriche con modelli in posa, sia quando ritraggono i miliziani curdi che si appostano in una strada apparentemente sicura, tra palazzi abbandonati; sia quando tre donne e due bambini (di cui un neonato) riposano in un cortile tra i panni stesi su fili che costruiscono diagonali prospettiche; e perfino nel fotografare i morti arrotolati in coperte e abbandonati a lato di una strada. Quasi pittorici i ritratti di due militari in interno, dove al vento che scompiglia la tenda fa da contrappunto coloristico il fumo bianco di una sigaretta.
Il sudafricano Gideon Mendel costruisce il suo personalissimo album di famiglia con i posati degli abitanti di zone alluvionate nel 2007. Tra reale e surreale si vedono coppie o singoli che, immersi nell’acqua o nel fango fino alle ginocchia o persino fino alla gola, posano di fronte o dentro o persino seduti sulla veranda della loro abitazione inondata. Non ci sono confini al progressivo innalzamento delle acque e al cambiamento climatico: dai Paesi del sud del mondo e dagli abitanti delle bidonville, fino ai ricchi europei o statunitensi del nord che si credevano protetti dalle loro mansion, la devastazione dell’acqua sembra inarrestabile. Ma questo non toglie ai volti delle persone colpite una dignità da vecchia foto sull’album della nonna.
Interessante anche il lavoro di Yoann Cimier (dalla Francia). Nomad’s Land è una serie fotografica dedicata alla reinterpretazione moderna dell’accampamento o della vita nomade, con scatti dedicati a tende da spiaggia, baracche di fortuna per migranti, baretti improvvisati, ombrelloni. A dominare è il bianco, accecante, del sole sulla sabbia e un senso di precarietà silenziosa e intima.
Molto belli i lavori dell’ucraina Viktoria Sorochinski, raccolti in Land of no-return. Ritratti d’interno (o in aie, cortili, e comunque luoghi che appartengono alla sfera domestica) di frugalità contadina, devozione, abbandono, senilità; di interni macerati dal tempo, dal freddo, dalla sporcizia, dalla povertà. Piccoli quadri dal sapore pittorico di un Vermeer, caratterizzati da colori iperreali che rimandano più alla corposità opulenta delle nature morte fiamminghe, che agli still life di un Edward Hopper.
Domingo Milella, italiano, è il vincitore del PhotoLux Award 2017. In mostra architetture urbane e naturali che si compenetrano, costruzioni tra rocce, su scogli, a picco sul nulla che riscrivono il panorama. La mano dell’uomo che sfregia mentre crea altri universi di senso. Segni rupestri, graffiti, incisioni si integrano con l’ambiente circostante. E il logos si fa pietra, masso, bomboletta spray.
E infine l’emozionante Behind the Scenes, la serie che ha permesso a Sergey Melnitchenko di vincere il Leica Oskar Barnack Award 2017 Newcomer (ossia, il premio per gli under 25). Il giovane ballerino e fotografo ucraino indaga con pudore e affetto il dietro le quinte dei club di Dongguan (capitale cinese del sesso). Un’intimità sofferta, condivisa, di donne e tra donne. La giarrettiera come oggetto di lavoro, la sigaretta perennemente accesa, i lividi e il rossetto, la richiesta d’affetto di un abbraccio. Nessun compiacimento o lascività, ma pudore e rispetto in questa serie che ritrae un mondo e, in pochi scatti, racconta decine di storie. Perché la fotografia, quando si sposa all’autoralità, ha la forza del linguaggio senza la sua retorica.
Pubblicati su Artalks.net, il 5/8/10 dicembre 2017
In copertina: Foto di PublicDomainPictures da Pixabay.