Il Teatro dell’Orsa invade pacificamente Reggio Emilia
di Luciano Uggè
Il 16 e 17 settembre due eventi per conoscere l’altro da sé. Lo spettacolo itinerante, Argonauti, del Teatro dell’Orsa (progetto nato nell’ambito di MigrArti 2107 – MiBACT / Comune di Reggio Emilia), e un convegno sul teatro sociale d’arte.
In un giardino secolare dove gli alberi svettano verso il cielo formando un gigantesco peristilio vivente circondato, a sua volta, da platani centenari – che sicuramente hanno memoria degli eventi passati, ai quali sono peraltro sopravvissuti – prende le mosse Argonauti.
Sotto le fronde gigantesche di un cedro, agghindato per l’occasione con le fattezze di un viso umano dipinto coi colori sgargianti di un rito tribale, si raggruppano attrici/ori guidati e attratti dalla dolce e suadente musica dal vivo eseguita dalla Banda della Colchide. Anche noi, spettatori, partecipiamo a questo primo incontro: si tracciano solchi che racchiudono piccoli spazi di conoscenza che, dalla saggezza di Chirone, si aprono ai ricordi individuali, recuperando memorie collettive quale primo momento per creare una comunità. Si rabbrividisce di fronte al piccolo gesto dell’attore che cancella quella traccia – che separava ognuno di noi dall’altro da sé – pensando ai muri, ai reticolati e ai cavalli di Frisia che le cosiddette democrazie ergono per bloccare popolazioni inermi ed erranti che sfuggono a guerre e povertà.
Ma il tempo incalza e lo spettacolo, coordinato da un’ottima regia (anche se apparentemente tutto sembra svolgersi con naturalezza), impone i suoi ritmi. Giasone rivuole ciò che gli è stato negato con la forza. I cori, molto bene coordinati, accompagnano le dichiarazioni degli eroi recitate in più lingue o dialetti – voci che raccontano di partenze e speranze dei nostri giorni. La mitologia si fonde con il presente, con naturalezza e senza contrasto, contrapponendo la possibilità di vivere e realizzarsi nei Paesi ospiti alla semplice brama di potere. E con l’ensemble musicale in testa inizia anche il nostro viaggio di spettatori compartecipi, non prima di esserci fermati presso un’aiuola dove recuperiamo quelle barche (o navi) che, come la mitica Argo, ci trasporteranno simbolicamente alla nostra meta. Decine, tutte colorate, frutto del lavoro che il Teatro dell’Orsa ha intessuto con la cittadinanza – attraverso associazioni, librerie e comitati – le barche recano scritte che riportano pensieri, speranze, delusioni e contrarietà di microcosmi che coesistono – ma che, normalmente, non si palesano.
Si parte, quindi, dal centro cittadino per arrivare alla Camera del Lavoro di Reggio Emilia dove un ipotetico, ma realistico, signore della guerra dei giorni nostri illustra a Giasone, su una colonna sonora rappata dal vivo, il potere e le nefandezze delle quali è capace per mantenere il proprio status. E d’un tratto si aprono di fronte ai nostri occhi finestre su luoghi ove la vita umana non vale nulla, ove tutti si è alla mercé di chi possiede i mezzi e le armi per imporre il proprio dominio. Ed è a questo punto che entra in scena Medea: donne bendate – come il coro greco – intonano un canto disperato e dolce, contemporaneamente, e poi, precedute dalla musica dal vivo, ci invitano a seguirle in quella periferia che, normalmente, a quest’ora della sera, la popolazione di Reggio preferisce evitare.
I pochi avventori dei bar e dei locali ancora aperti ci guardano passare – tra lo stupito e l’infastidito. Qualcuno si azzarda a chiedere cosa stia succedendo e il perché di quella che sembra, dal loro punto di vista, più un’intrusione che un tentativo, da parte degli organizzatori, di rendere fruibili strade e piazze, superando la diffidenza, e trasformandola in possibilità di conoscenza.
Nel largo spazio a latere di un supermercato, tenuto libero a fatica, ecco l’incontro surreale tra Giasone ed Eete. Una tenzone a ping pong mentre i protagonisti scandiscono le battute d’obbligo tra chi vuole essere accolto e aiutato e chi considera lo straniero come un aggressore. Viene quasi alla mente la visita di Nixon in Cina, nel 1972. Ma l’incontro al quale stiamo assistendo avrà esiti ben diversi; i quattro carrelli da supermercato, usati anche dai clochard di tutto il mondo, si trasformano in carri da guerra che entrano velocemente nel piazzale per iniziare la tenzone con l’indesiderato ospite. Rotoli di carta igienica avvolgono e colpiscono i guerrieri che, a uno a uno, sono sopraffatti dal nuovo arrivato. I bambini, accorsi a frotte per l’occasione e seduti per terra nelle prime file, rilanciano i rotoli partecipando, in modo giocoso, allo scontro. Più che a una battaglia sembra di partecipare a una festa, a un rito di iniziazione alla vita, all’effetto catartico della favola.
Si riparte con la musica che fa da apripista per arrivare a un piccolo anfiteatro ove campeggia l’oggetto della contesa: il vello d’oro. Lo stesso è frutto di un lavoro intenso con gli abitanti del quartiere, un puzzle di frasi casualmente assemblate ma rappresentative delle speranze e dei sentimenti di molti. «Il giorno del mio matrimonio…»: recitano ragazze e ragazzi e, con brevi frasi, rivelano aspettative, passioni, fantasie, un’ironica smitizzazione del rito, la necessità profonda dell’incontro. Accompagnati dall’ottima base musicale che si interrompe, di volta in volta, per permettere ai pensieri reconditi di manifestarsi in flash folgoranti. Conquistato il vello d’oro, prima le coppie degli interpreti, poi tutto il pubblico presente, passano sotto il vello nella speranza di conquistarsi quel secolo di felicità che lo stesso promette.
Argonauti – ideato da Monica Morini, Bernardino Bonzani e Annamaria Gozzi – vanta una regia precisa e accurata nei minimi particolari, in grado di utilizzare al meglio gli spazi e di coinvolgere la cittadinanza prima, durante e dopo lo spettacolo (con una danza collettiva sulle note di Romagna mia), rendendo altresì al meglio i contenuti dell’ottima drammaturgia. La base musicale ben asseconda lo svolgimento dello spettacolo, caratterizzando i vari momenti; così come i cori, accurati e precisi, con qualche assolo particolarmente riuscito, manifestano e traducono sentimenti ma rimandano anche alle voci e ai riti di culture lontane – eppure vicine.
°*°*°
Domenica 17, in mattinata, il convegno sul teatro sociale d’arte – al quale sono intervenuti Andrea Porcheddu, Gabriele Vacis e i fondatori del Teatro dell’Orsa, Monica Morini e Bernardino Bonzani – ha permesso di approfondire alcune tematiche quali la necessità di elaborare e fare propri nuovi strumenti critici per affrontare opere al di fuori degli schemi consueti al teatro tradizionale. Sono state denunciate, d’altro canto, alcune logiche non proprio cristalline nell’utilizzo di problematiche sociali, legate alla possibilità di reperire fondi pubblici messi a disposizione per fini di socializzazione, integrazione e convivenza civile. È emersa la necessità di un fare teatro che coinvolga la cittadinanza in senso lato, che visiti e si mostri al di fuori di quei luoghi sempre più disertati, che sono i teatri stabili. E che restituisca conoscenza e speranze autentiche, lontane da quelle fittizie imposte dai media, slegate dai bisogni reali ma imposte come uniche possibili in questo mondo di apparenze e futilità. Occorre tornare anche ai significati oltre che ai significanti. E infine si è manifestata la necessità, da parte delle compagnie e degli operatori, di raccontare il reale e l’urgenza, per attrici e attori, di fare i conti con la propria esperienza, qui e ora.
Per un teatro vivo, di vivi.
Pubblicato (con minime modifiche) su Artalks.net, il 19 settembre 2017
In copertina: Argonauti, foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Teatro dell’Orsa.