Da Carné a Truffaut, il fotografo che ripercorre col proprio obiettivo la storia del cinema francese
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Il bianco e nero padrone assoluto, il ritratto di una Parigi in movimento – dagli anni 30 agli 80, la messa a fuoco di situazioni quotidiane che si tingono però di un’insospettata ironia, l’azione al centro del mirino più che il semplice ritratto, una vena insieme poetica e malinconica. Questi alcuni degli stilemi che hanno fatto di Doisneau il cantore della vita e della morte, come lo furono il Marcel Carné di Alba tragica (Le jour se lève, 1939) e il Truffaut di Jules e Jim (Jules et Jim, 1962).
Aldilà della semplice retorica romantica parigina emblematicamente fissata da Baiser de l’Hôtel de Ville (1950), che si è scoperto essere un posato solo pochi anni prima della morte dell’autore, la ville lumière non è mai stata così chiaroscurale, persa tra ombre e nebbie, obliqua, sfuggente e malinconica. Les bouchers mélomanes (1953) ne sono forse il più chiaro esempio, con il ritratto di tre macellai con tanto di grembiule imbrattato di sangue che, in un tipico café parigino, fissano assorti una giovane fisarmonicista intenta a suonare a occhi chiusi. Il titolo – volutamente ironico – è indicativo dell’altro côté di Doisneau, che ritroviamo in tre fotografie (tutte in mostra). Un Regard Oblique (1948), dove una donna ammira, in una vetrina, un pezzo di antiquariato indicandolo al marito che, però, è attratto da ben altro soggetto: un nudo nell’angolo opposto della vetrina; Fox terrier au Pont des Arts (1953), che – contraddicendo il titolo e l’inquadratura in primo piano del cane – fissa l’attenzione sul padrone della bestia intento a scorgere, aldilà delle spalle del pittore, la modella sulla panchina, che l’artista sta ritraendo nuda; e, infine, Le petit balcon (1953), in cui un’intera platea seduta ai tavolini di un locale è rapita da quanto accade, probabilmente, su un palcoscenico, mentre un’anziana signora – ignorando lo spettacolo – si scopre a fissare una giovane bionda e in parte discinta, seduta per terra vicino a un uomo – probabilmente il marito della signora. Lo sguardo “obliquo” come soggetto narrante di una situazione, disvelamento di rapporti, ironica presa in giro del comune senso del pudore.
Doisneau è stato sicuramente il cantore delle piccole storie quotidiane, dei protagonisti anonimi della banlieue parigina, ma tra i suoi ritratti non mancano quelli delle celebrità dell’epoca. Se i posati sono sempre venati di umorismo e giocati sull’inscindibile unitarietà tra personaggio e arte (si vedano, in mostra, Les pains de Picasso, 1952; Le vélo de Tati, 1949; o L’archet, Maurice Baquet, 1958), alcuni scatti – quasi rubati – ritraggono l’uomo o la donna che si cela dietro la maschera del successo. In questo senso, emblematica Simone de Beauvoir (1944), immagine di una solitudine compresa e modesta, della fragilità di una donna forte, apparentemente piccola, sovrastata da un ambiente freddamente geometrico, estensione simbolica di una compostezza formale che traspare in quella capigliatura raccolta e precisa, nella semplicità del vestiario, nel candido incarnato insieme algido e puro. E ancora, Jacques Prévert au Guéridon (1955), che immortala il poeta e sceneggiatore di Marcel Carné – con il quale firmò i capolavori, Il porto delle nebbie (Le quai des brumes, 1938) e Amanti perduti (Les Enfants du paradis, 1945) – come un anziano, solo in compagnia di un cane, seduto a un tavolino di fronte a un calice di vino, perso nello stesso universo estraneo e lontano della protagonista de L’assenzio (L’absinthe, 1875/76) di Edgar Degas.
Dietro a ogni scatto di Doisneau, del resto, si intravede una storia e sicuramente il suo obiettivo è più attratto dall’azione nel suo svolgersi – per la sua innata capacità di raccontare – che da qualsiasi mira verso una perfezione estetica o formale. Ecco allora che il suo sguardo ci restituisce, in Bain de soleil (1966), i costumi sociali delle giovani donne degli anni 60 che, nella pausa di lavoro, vanno al bar a mangiare o bere qualcosa, godendosi il primo sole e la libertà dell’indipendenza, dell’aria aperta e dell’amicizia tra donne. O ancora, in La mimosa (1952), l’intera vita di due alcolizzati sembra scorrere di fronte ai nostri occhi in quel gesto di tenerezza e di cura per un mazzolino di fiori forse regalato, gelosamente custodito in un bicchiere d’acqua. Mentre i ricordi degli anni della scuola dell’obbligo tornano ne Le cadran scolaire (1956) o in L’information scolaire (sempre del ’56), con quel bambino che tradisce la sua noia guardando apprensivo l’orologio, e l’altro che sbircia il compito del compagno mentre questi si scervella per trovare la soluzione del problema.
Un paio di righe ancora per segnalare che, comunque, l’arte fotografica di Doisneau – in grado di raccontare senza l’ausilio di parole – non andrebbe comunque sottovalutata nemmeno dal punto di vista estetico. L’infinita gamma di chiaro-scuri e la morbidezza dei contorni si accompagnano sempre a inquadrature sagaci e precise, dove l’ambiente non è mai avulso dal personaggio bensì, per rimandi e dissonanze, continuazione e alter ego dialogante del personaggio stesso ritratto – come nella Trilogia dell’incomunicabilità di Antonioni. Ogni scatto ha la forza narrante di descrivere solitudini e incontri, speranze e amare delusioni (in mostra, tra le altre, Mademoiselle Anita, 1951; Paul Léautaud et ses chats, 1953; Le singe de Monsieur Bayez, 1970). Mentre le inquadrature stupiscono per la qualità delle diagonali e delle prospettive che da fisiche si trasformano in metafisiche (si vedano, La meute, 1969; Au Bon Coin, 1945; Rue des Artistes, 1988).
Una mostra per riscoprire una Parigi che non c’è più.
Pubblicato su Artalks.net, il 19 agosto 2017
In copertina: Foto di Darius Sankowski da Pixabay.