Al Ravenna Festival la magia futurista: quando il tempo sembra non sfiorare la bellezza
di Luciano Uggè
Il primo Novecento è stato caratterizzato, nel campo artistico, dalla nascita di numerosi movimenti che hanno avuto in comune la contestazione dell’esistente, sia a livello socio-politico che dei linguaggi e delle forme che ne avevano rappresentato, fino a quel momento, la glorificante celebrazione. Accademie e musei sono criticati e additati come non-luoghi dove marciscono i prodotti borghesi – identificati con quelli che potevano soddisfare le possibilità di acquisto da parte di quella classe sociale, che nel frattempo aveva soppiantato committenze nobili e papali. Il Futurismo, nato in Italia per opera di Marinetti, poeta, e mirabilmente esplicitato nelle opere di Boccioni – per citare solo uno tra gli interpreti principali di quel movimento – approda e si allarga in tutta Europa, su fino alla Scandinavia – dove Aleksej Kručënych (ideatore dell’opera in 2 agimenti e 6 quadri), Michail V. Matjušin (delle musiche) e Kazimir S. Malevič (di scene e costumi) tentano, nel 1913, attraverso un’opera teatrale (anche se questo termine non sarebbe probabilmente ben accetto ai tre), di fondere poesia, musica e pittura. Il risultato, per quel periodo, fu sorprendente. Ma il lavoro ebbe poca fortuna e breve vita e lo spettacolo che, oggi, ripropone il Teatro Stas Namin di Mosca per la regia Andrej Rossinskij – in scena al Teatro Alighieri di Ravenna – può dirsi quasi un nuovo debutto.
Dopo oltre un secolo dalla prima messinscena, assistervi è come vivere un’esperienza dove le tre arti assumono uguale peso mantenendo una medesima difficoltà di omologazione. Le musiche, dal vivo, anticipano quelle che più tardi ritroveremo nel cinema d’avanguardia sovietico; il testo poetico segue i dettami della scrittura futurista, ossia è spesso un insieme di lettere e parole che tentano di interpretare o rendere intuibili i suoni e i movimenti in scena. La pittura campeggia, al centro del palco, nel suo insuperabile contrasto: un quadrato nero su fondo bianco (il quadro che Malevič dipinse proprio nel 1913 e che, due anni dopo, sarebbe stato considerato il capostipite dell’arte suprematista). Sul quadrato (ovvero, un telo) scorre in video la serie di disegni che il pittore ucraino aveva ideato quale scenografia. Gli attori/cantanti sopraggiungono alla spicciolata e iniziano a indossare delle strutture in gommapiuma, disegnate anch’esse da Malevič. Le fattezze scompaiono e ci si ritrova di fronte a delle marionette, a volti inespressivi e corpi che si trasformano in forme geometriche e macchie di colori. Il testo scorre, nella quasi totale incomprensione del pubblico, in quanto volutamente incomprensibile. L’attenzione degli spettatori è alta, saldamente legata ai movimenti in scena e ai ritmi musicali eseguiti rigorosamente dal vivo. Le macchine, tanto care ai futuristi, entrano in campo, rappresentando sia il passato che il presente. Gli interpreti cercano di utilizzarle al meglio, seppure non sempre vi riescano. La lotta contro il sole, l’esistente moribondo, prosegue a lungo, fin quando le tenebre riescono momentaneamente a prendere il sopravvento. Il recitativo a quel punto lascia spazio ad azioni più composite. Le danze si alternano agli scontri che, però, sono più verbali che fisici. La musica sempre più incalzante spinge gli interpreti ad accelerare la gestualità, i movimenti si moltiplicano e la situazione precipita: il mondo delle tenebre avanza, soppiantando e imbrigliando il presente.
Fin qui le suggestioni che è parso di rintracciare. A questo punto, compaiono sul palco dei palloni che, spesso, si sovrappongono persino ai volti (come le forme geometriche di Malevič sostituiranno il reale espressivo). Le paure sembrano finalmente scacciate dal nuovo – anche se la trama non è lineare e si gode più l’impressione del momento che non un fantomatico quadro d’insieme (lontanissimo dai dettati poetici futuristi). E a questo punto, con la comparsa di nuovi mezzi meccanici (emblemi del credo nel movimento, nella velocità, nella forza mascolina), per un istante ci si pasce nell’illusione che la battaglia sia vinta. Eppure no, non è così. Il sole imbrigliato e nascosto torna a rilucere e il quadrato nero su fondo bianco si spezza. La forza della luce erompe nuovamente, inondando la scena e sorprendendo i sovvertitori dello status quo. Forse per il mondo – sul palco e fuori dal teatro – è ancora troppo presto. Oppure, la rivoluzione non può che essere permanente – pena l’imborghesimento e le chiusure di qualsiasi regime si instauri al potere.
Uno spettacolo che sorprende per le novità rappresentative ancora oggi. Un connubio tra musica (in gran parte composta appositamente per questa edizione, stanti gli scarsi frammenti dell’originale), parole e azioni che lascia stupiti per la freschezza dell’esecuzione.
Più che uno spettacolo teatrale, lo srotolarsi di una serie di figure che affollano i quadri delle avanguardie dell’epoca che, improvvisamente, escono dal quadro, fuggono dal museo per prendere finalmente vita.
Pubblicato (con modifiche) su Artalks.net, il 24 giugno 2017
In copertina: Rivoluzioni in musica, il capolavoro del futurismo russo Vittoria sul sole (1913).