Oscar de Summa s’interroga sull’adolescenza partendo dal mito
di Luciano Uggè
Uno spettacolo che lascia il segno quello scritto, diretto e interpretato da Oscar De Summa, sul palcoscenico del Fabbrichino di Prato in prima assoluta.
Uomo/donna, madre/padre, figlia/figlio – nessuno è risparmiato in questa analisi di stati d’animo e comportamenti. L’ascolto non è ascolto. I problemi ingigantiscono perché espropriati dal confronto. Le relazioni che non sono più tali, in quanto ognuno è racchiuso nella propria torre d’avorio che s’innalza sempre più alta.
“Ho fatto tutto questo per te…”, è la scusa più ovvia – prima ancora con se stessi che verso l’altro. “Ma chi te lo ha chiesto?”, potrebbe essere la risposta, quella condanna di un intero vissuto che non ha saputo generare comunicazione, apertura di canali per la comprensione dei bisogni reali dell’altro – o, quanto meno, per un efficace tentativo di stimolarli. Un vuoto che si allarga e investe chiunque. Così si precipita e ci si appaga con il superfluo, l’inutile che, per colmo di ironia, ci svuota crogiolandoci nell’illusione che si esista. Mentre i sentimenti accantonati riaffiorano e fanno riscoprire l’amore, forse quello mai realmente vissuto. Si fanno scelte più per dispetto che per reale necessità. Per appagare bisogni di redenzione si lanciano accuse di cattivo comportamento – i riferimenti biblici sono insieme ironici e appropriati; le assenze ingiustificate e le richieste di aiuto cadono nel vuoto.
E intanto, l’impronta dei padri condiziona la vita dei figli, alla ricerca di quell’accettazione che dovrebbe iniziare con l’autostima e la ricerca di valori dimenticati, o scarsamente considerati, in quanto estranei al tessuto sociale che ci circonda. Nemmeno lo stimolo esterno che pungola interviene nel profondo per cercare di far emergere le reali necessità, nemmeno quando è impersonato da uno zio/Tiresia che spinge Edi/Edipo – in modo volutamente esasperato – a reagire a un nichilismo autodistruttivo, senza scopo né ragione.
Questi e altri i filoni d’indagine e le stratificazioni psicologiche che indaga Oscar De Summa in La Cerimonia. Lo spettacolo, ben interpretato dall’intero cast (composto dall’autore, Vanessa Korn, Marco Manfredi e Marina Occhionero), si giova di un buon equilibrio tra momenti drammatici e, altri, imbevuti di una sottile comicità che, utilizzando ampiamente la mimica facciale per sottolineare concetti non accettati dal perbenismo benpensante, hanno la forza di fare presa sul pubblico utilizzando il grimaldello dell’ironia. Le musiche accompagnano ottimamente questa lenta discesa verso gli inferi dell’autodistruzione – forse poco realisticamente salvata dall’escamotage finale.
Un Edipo usato come gabbia concettuale, da De Summa, nella quale si intessono i molteplici fili che legano genitori e figli, con la presenza esterna (Tiresia/zio) che tenta di svelare il nascosto, il non detto, e spingere Edi (Edipo/la figlia) a una partecipazione costruttiva ed empatica rispetto a ciò che le accade intorno. Un impegno in prima persona nei confronti della vita, che rompa il bozzolo che distanzia allontanando, estraniando il sé dal resto del mondo.
E alla fine, un richiamo all’autenticità inteso come bisogno di scelte che siano davvero necessarie.
Pubblicato (con modifiche) su Artalks.net, il 7 aprile 2017
In copertina: il cast in una scena. Foto di D. Burberi (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Teatro Metastasio, produttore dello spettacolo)