Alla Galleria Continua di San Gimignano, tre personali firmate da Ilya & Emilia Kabakov, Hans Op De Beeck e Carlos Garaicoa
di Simona Maria Frigerio
Il tempo. Sospeso, eternizzato o caduco; il suo scorrere come flusso incessante e il suo cristallizzarsi come un fermoimmagine di una pellicola sull’ultimo fotogramma; pre post o atemporale.
Il tempo è il fil rouge che lega sottilmente le tre personali ospitate da Galleria Continua. Quello dell’infanzia o dell’innocenza perduta dei Kabakov; quello raggelato nella lava di una Pompei post-futurista di Hans Op De Beeck; e il tempo storico di Garaicoa.
E il nostro percorso – dato che il tempo umano non ha senso senza la dimensione spaziale – partirà dallo spazio dedicato ai coniugi Kabakov e a tre installazioni concettuali che colpiscono per la loro forza poetica.
In I want to go back! (Reverse, 1998) ritroviamo diversi tòpoi, tra i quali il manto protettivo della Madonna del Polittico della Misericordia di Piero della Francesca, qui trasformato in gonnellone materno e, insieme, in sipario teatrale che cela e custodisce i giochi e i ricordi della nostra infanzia. Sulla sinistra, in una nicchia, The children’s corner (1988), che rimanda sia alla stanza di un bambino sia, tragicamente, alla cella di un gulag o di un qualsiasi carcere italiano – dove i detenuti appendono, alla parete, foto di un passato che, nel fine pena mai, non diventerà mai futuro. E ancora, in una stanza appartata, sulla destra di Reverse, ecco How can one change oneself (2010), installazione racchiusa in un piccolo locale a se stante, a sua volta suddiviso in un lungo corridoio in semi-ombra, dove lo spettatore/voyeur sosta, sbirciando nell’intimità di un’esistenza altra da sé; e una stanza/studio raccolta, dove un angelo, dimentico delle proprie ali (illuminate con effetto insieme patetico e drammatico), sembra avere scelto la nostra dolente umanità. Forse per i rimandi culturali di chi scrive, più vicino a Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino) di Wim Wenders, che non agli intenti di perfezionamento individuale attraverso la meditazione – suggeriti dagli autori.
Hans Op De Beeck, scenografo drammaturgo videoartista, si presenta a Continua nelle vesti di scultore. Come nei suoi film, la purezza aristocratica della linea di questi still life stupisce per la sua essenzialità – e qui, il rimando a Der Stand der Dinge (Lo stato delle cose), sempre di Wenders, appare doveroso sia per la scelta della scala di grigio, sia per la ricercatezza dei piani.
Nelle nature morte, in particolare, ogni oggetto posizionato sui tavoli, si ricompone nell’insieme partendo dal proprio contenuto simbolico. Dall’opulenza del Cinquecento fiammingo, palpabile nella rotondità dell’uva, metafora voluttuosa della vanitas; al peso della farfalla à la Erri De Luca che, in un battito d’ali, separa la vita dalla morte indicando una possibile rinascita del topos del memento mori.
La cristallizzazione assoluta del tempo nel gesto irripetibile, del qui e ora, si tocca in Gesture (Balloon, 2016), dove il palloncino “bianco” rimanda non solamente all’infanzia, personale e collettiva, perduta; ma anche all’innocenza di noi europei che, dopo avere destabilizzato e incendiato interi Paesi, ci risvegliamo vittime di una guerra che molti tra di noi non sapevano di avere dichiarato. L’aspirazione a quell’attimo di pace, a un Paradise Lost, si respira altresì, seduti in contemplazione di Pond (Circular, 2013), suggestionati dalle luci artificiali che creano un sapiente gioco chiaroscurale e una miriade di riflessi acquatici laddove la mano dell’artista/artefice ha saputo ricreare suggestioni iperrealiste di una natura anch’essa, forse, per sempre perduta.
L’opera che sembra racchiudere in sé l’intero opus di De Beeck è sicuramente Still Life (2011), dove l’artista mostra la sua vena più autentica di metteur en scène e Deus ex machina. Qui la realtà iperreale dei simboli del nostro quotidiano in scala 1:1, immortalati dall’effetto lava di tutte le sculture di De Beeck, assurge a coprotagonista di un teatro-mondo shakespeariano, confrontandosi, attraverso il fuori misura, con un piano in attesa di mani sapienti. Il sipario è calato sull’attimo di silenzio che precede o segue l’esecuzione, nella sospensione temporale dell’attesa o nell’appagamento del coito artistico. È la realtà della contingenza brutale della nostra spazzatura eternizzata, messa in scena con un sottofondo musicale inudibile, istante di bellezza caduca come quella cantata dal Magnifico.
L’ultimo artista in mostra è Carlos Garaicoa, il cantore della Storia (con la S maiuscola). Della plasticità asettica dei nostri moderni alveari confrontati con le città invisibili del ciclo Testigos. Mentre nei suoi disegni si materializzano i sogni di architetture impossibili, futuriste quanto quelle di Sant’Elia.
Il tarlo del tempo, reale e metaforico, è al centro di un’opera/domanda aperta, quale ¿Y después, qué heremos? (2016), dove le travi di legno smangiate richiamano sia l’arte povera, sia la decadente bellezza coloniale della sua Avana. E ancora, concettualmente sconvolgente, The roots of the world (2016), che espone una Manhattan (o simil tale), all’apparenza luccicante, ma in realtà lama affilata della finanza pronta a colpire chiunque, ideologicamente o poeticamente, le si opponga (come constatò sulla propria pelle un altro cubano, il poeta Reinaldo Arenas, e come racconta con struggente poesia il film a lui dedicato, Before Night Falls, di Julian Schnabel – tra l’altro, noto pittore oltre che regista). Ma, al di là di questa prima, superficiale lettura, si possono rintracciare molte altre metafore in queste lame, impugnate da una sfilata di grattacieli. Non ultima quella musicale. Il ritmo visivo dell’opera è indubbio e il richiamo alle note tracciate sul pentagramma sembra rimandare a un tempo interiore, proprio dell’essere umano, che – antropologicamente nostro – risuonerà ancora quando l’ultimo grattacielo crollerà, spazzato dal vento della Storia.
Pubblicato su Artalks.net, il 10 luglio 2016
In copertina: Foto di Enrique Meseguer da Pixabay.