Report di venerdì 1° luglio e sabato 2 luglio
di Luciano Uggè
(ha collaborato, alla recensione di Fäk Fek Fik – Le tre giovani, Simona M. Frigerio)
Una giornata di sole fa da sfondo propizio all’inizio del Festival che, utilizzando per molti giochi/performance, location esterne, necessita di belle giornate estive.
Un’impostazione, questa di Pergine, che permette di coinvolgere, oltre agli spettatori, anche tutti coloro che casualmente si trovano a passare per vie e piazze, incuriosendoli e permettendo loro di usufruire degli stessi in maniera creativa. Può capitare, ad esempio, di essere coinvolti in un percorso-vita, accompagnati da una ragazza dell’A.N.F.A.S. Trentino Onlus in sedia a rotelle, che ci guida, mentre siamo bendati, attraverso una serie di ostacoli fisici e psicologici, restituendoci la sensazione di difficoltà che tutti noi – persone più o meno diversamente abili – incontriamo quotidianamente.
E, sempre a proposito di percorsi, quello che propone Circolo Bergman con Macinante è una riscoperta di ciò che, col tempo, è stato sepolto o, per meglio dire, incanalato. Quell’acqua che, usata come forza motrice, muoveva le macchine del Lanificio Dalsasso – ormai ferme per sempre, in un vecchio mulino trasformato in filatoio. Un sogno avverato, quello della famiglia di imprenditori, al prezzo di duro lavoro e fatica. Nella fabbrica si lavorava con continuità – e sicuramente troppo – contrariamente a quanto avviene oggi con i contratti a chiamata o a ore (precarietà, questa, che, se si volesse, potrebbe essere ovviata semplicemente con un welfare degno di questo nome). Ma torniamo al walkabout (il cui testo è firmato da Paolo Giorgio, Sarah Chiarcos e Marcello Gori). Nel locale semibuio si scoprono i macchinari della Dalsasso ed è facile immaginarli ancora in movimento, alimentati con continuità dagli addetti, che – come ci ricorda la voce in cuffia – dovevano ovviare ai momenti di pericolo, quando si verificava la rottura di una cinghia, con la concitazione presta indispensabile per far ripartire la produzione nel più breve tempo possibile. Un lavoro faticoso, a turni, frastornati dal continuo rumore assordante. Il percorso site-specific è anche un viaggio nel tempo, che rimanda al potere feudale difeso dalle alte mura del castello – irto sulla collina che sovrasta la città – ma ormai decaduto e sostituito da altri, più ramificati e sottili, ma ben più rapaci nello sfruttamento delle risorse umane e naturali.
Alle 21.30, siamo gentilmente ospitati in un appartamento che, come ci illustra il padrone di casa, è situato in una delle vie centrali più belle di Pergine. Qui, ci sediamo tutti di fronte al disegno dell’Europa, che campeggia su un lungo tavolo, intagliato dal padre del nostro ospite, che lo costruì con i ciliegi, ormai vecchi e senza frutti, che aveva piantato quando era ancora giovane. Una specie di piccola stampante con un pulsante verde e uno rosso e che emette anche una qualche colonna sonora, posizionata al centro del tavolo, decide i tempi del gioco, emette sentenze e porge domande. Prima ai singoli e, poi, a ognuna delle sei squadre che una coordinatrice forma in base alle risposte date nella prima parte, e che dovrebbero accoppiare gli individui secondo scelte ideologiche o casi della vita. Si discute dei rapporti tra le persone, di cooperazione tra Stati, di accordi tra gli stessi e di finanziamenti e tassazione. Risposte per lo più concise – per evitare che la macchina, imperterrita, sovrapponga i quesiti. Domande anche personali ma che rimandano a principi di convivenza, tolleranza, comprensione e collaborazione, tese forse a far sì che i partecipanti evitino il più possibile di fossilizzarsi sulle proprie posizioni con atteggiamento di sfida.
Quando le domande vertono sui valori e i principi costitutivi dell’Europa, le stesse mettono in mostra la poca conoscenza del semplice cittadino verso questa comunità formata da 28 (ormai 27) Paesi che, a vario titolo, ne fanno parte. Rancori mai sopiti riemergono nei confronti dei potenti – sia a livello sovranazionale che, metaforicamente, personale; così come paure; ma anche inaspettate aperture di fronte alla possibilità di muoversi, comunicare e confrontarsi – senza preconcetti sulle diversità. Home visit Europe – più gioco che teatro (firmato da Rimini Protokoll, con l’ideazione e la direzione di Helgard Haug, Stefan Kaegi e Daniel Wetzel, e la drammaturgia di Katja Hagedorn) – finisce con un premio. Un dolce che dovrebbe essere teoricamente condiviso in base alle risposte date e, quindi, a vincitori e vinti, ma che viene spartito equamente fra tutti i commensali. Quasi un auspicio di un modo nuovo di vivere e intendere l’Europa, quale spazio aperto alla solidarietà e non semplice invenzione geografica a fini finanziari e di mercato.
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Sabato 2 luglio, partiamo da una casetta in legno, come altre disposte nel centro di Pergine. Un po’ di difficoltà – all’inizio – per capire come funzioni l’installazione (intitolata Ex voto) e come accedervi. Poi, aprendo la porta, si scopre un mondo colorato, composto da centinaia di farfalle, dipinte a mano su fogli acetati trasparenti, che campeggiano sulle pareti e fungono da buste contenitori. Tutte diverse, le farfalle opera di Andrea Fontanari, vogliono essere un momento di raccoglimento personale all’interno del Festival. Chiusa la porta alle proprie spalle, si apprezza immediatamente la musica che avvolge e isola dall’esterno e quello che sembrava, visto da fuori, quasi un’imposizione – ossia lasciare uno scritto che racconti un pensiero, un’emozione provati al momento – si trasforma in una necessità. Si sente il bisogno di afferrare la penna e di tracciare, su uno dei fogli bianchi posati nei cassettini aperti del bancale, immagini e sprazzi di idee che affiorano nella mente. Consegnandoli, come fossero piccole testimonianze di sé e dell’azione nella quale ci si è sentiti coinvolti, a una tra le centinaia di farfalle sospese.
Lo spettacolo teatrale, alle 21.00, è Fäk Fek Fik – Le tre giovani, in scena nella suggestiva Rimessa delle Carrozze. Tre donne (interpretate da Martina Badiluzzi, Giovanna Cammisa, Arianna Pozzoli – dirette da Dante Antonelli), su un palcoscenico metaforico, che in certi momenti sembra non poter contenere la loro irruenza per uno sfogo lungo una vita. Uno spazio scarno e vuoto (come l’esistenza delle protagoniste), ma illuminato con intelligenza, è il luogo d’incontro e scontro, palestra di una serie di gesti e movimenti sempre bene sincronizzati – a volte in parte e, altre, esacerbati in maniera grottesca. Racconti di vite parallele ma, spesso, agli antipodi, si incrociano con preghiere al femminile (in stile Women and the Church) e sogni/incubi dell’immaginario filmico (da Trainspotting a una novella Benilde, incinta del Papa, a un qualunque serial Us trasmesso da MTV). Dalla bella ma vuota, da un punto di vista emotivo e intellettuale, che invita nel suo attico una sfilata di bellimbusti molto fashion; all’italiana contemporanea, con lavoro precario e sottopagato, che deve partecipare alla festa aziendale anche se da mesi non prende lo stipendio – e chiude il cerchio in stile Pulp Fiction. Particolarmente divertente la parodia della dog-sitter.
Le battute, veloci e spesso volutamente sgangherate, si succedono senza soluzione di continuità a un ritmo sempre più sincopato sotto uno scroscio di luci psichedeliche. Anche il ritmo musicale si accentua. Gli amori sono sempre fugaci, impossibili, torbidi o perfino sporchi, ineluttabilmente sbagliati. La donna resta incinta e non ha altre alternative tranne saltare i pasti per risparmiare in vista del futuro nascituro, o farsi saltare sulla pancia dalla sveltina di una notte. La Legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, conquistata a caro prezzo dalle donne, sembra un neo trascurabile (come nel libro altrettanto discutibile di Margaret Mazzantini, Non ti muovere). Si preferisce, come sempre più spesso accade nella letteratura e nel teatro italiano, ricorrere al trash a stelle e strisce.
Il vuoto mentale e culturale più che raccontare la realtà difficile delle donne, tra disoccupazione e femminicidio, sembra prendere in prestito modelli culturali avulsi dal contesto italiano ed europeo. Il corpo della donna è mercificato? Sì, ma anche in scena: perché le attrici devono spogliarsi? Nulla di quanto dicono nel copione sembra giustificare una simile scelta (che avevamo trovato, al contrario, consona ed efficace, ad esempio, in La merda di Cristian Cerasoli).
Spettacolo che scivola veloce, buona prova attorale, ma testo (scritto da regista e interpreti) superficiale quanto la trattazione di un universo, quello femminile, più autoironico e complesso, sfaccettato e culturalmente valido di quello abbozzato in questi ritratti che sanno troppo di Oltreoceano.
Pubblicato in due parti (con modifiche) su Artalks.net, il 2 e il 4 luglio 2016
In copertina: Fäk Fek Fik – Le tre giovani (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Festival)