Testimonianze Ricerca Azioni 2016: quintessenza emozionale
di Luciano Uggè
Un’esperienza per certi versi sconvolgente quella proposta dal Festival organizzato da Teatro Akropolis, e che si è vissuta presso Villa Rossi Martini, sabato 16 aprile.
L’incontro con Imre Thormann, al Centro Ligure di Studi Orientali di Genova, il giorno precedente, aveva suscitato curiosità verso il lavoro di questo maestro di Butoh, forma artistica che – seppure ampiamente illustrata – rimaneva in ogni caso sfuggente, avvolta in un alone di mistero. Difficoltà a esprimere in parole un linguaggio espressivo agli antipodi o incapacità del pubblico a immaginare una forma teatrale al di là della parola.
Sabato è il giorno dell’esibizione (anche se questo termine è decisamente fuorviante). Siamo al primo piano dell’antica dimora genovese, che conserva tutto il suo fascino ma anche i limiti di un restauro che attende da troppi anni. All’esterno di un rettangolo delimitato da luci al neon, gli spettatori si accomodano su semplici sedie di plastica stringendosi gli uni agli altri. Più o meno consci e preparati per un’esperienza teatrale sconosciuta alla maggioranza dei presenti.
I movimenti precisi della nostra quotidianità prendono forma davanti a noi. Thormann entra in scena con passo tranquillo, indossando il consueto gessato. Si siede, si alza e comincia a spogliarsi.
È a questo punto che l’esperienza dello spettatore cambia radicalmente. Il tempo pare fermarsi, o forse sarebbe più esatto parlare di sensazione di atemporalità. Il corpo del performer subisce una metamorfosi. E il pubblico inizia a sentirsi partecipe di quel corpo per il quale procedere in linea retta diventa impossibile. La respirazione rallenta. La difficoltà è resa visibile e palpabile: sembra che ogni muscolo vi partecipi. Il busto s’inarca in movimenti che pare ne pregiudichino l’equilibrio. Un’esile forma, alla Giacometti, si allontana sempre più da noi ma – incredibilmente per le leggi della prospettiva – ai nostri occhi appare più alta, distaccandosi quasi da terra.
Improvvisamente, il corpo si affloscia di nuovo – quasi fosse svuotato dalle ossa che normalmente lo sorreggono. Si sente fremere una sorta di ribellione contro questa ennesima sconfitta, e il corpo tenta, riuscendovi solo parzialmente, a recuperare in ogni modo la posizione eretta.
Tutto il dolore del mondo contorce i tratti del volto di Imre: vi leggiamo riflessi le nostre sconfitte, le angosce ataviche, i dubbi quotidiani, la comune perdita. Senza pronunciare nemmeno una parola Enduring Freedom denuncia con ferocia e poesia tutte le brutture che si commettono ogni giorno in nome di presunti ideali.
Ma il messaggio alogico e prelinguistico è chiaro: mai rassegnarsi. Il viso contorto nella smorfia di dolore si distende nella dolcezza, un barlume di speranza illumina gli occhi: vi è un altro percorso da seguire e l’incedere di questa umanità, per quanto difficile e doloroso, saprà sempre ritrovare una propria direzione.
Imre si riveste e lentamente, come era apparso, esce di scena. Nel silenzio più assoluto. Noi che abbiamo assistito, partecipando emotivamente, fatichiamo a imitarlo. La performance è terminata ma molti non riescono a muoversi con scioltezza, a pensare lucidamente, a superare l’emozione. Le parole sembrano inarticolabili. Ad alcuni manca il fiato, altri piangono apertamente. Qualcuno resta impassibile, ma è un’esigua minoranza. Cosa è successo? Perché qualcosa è accaduto. Nel senso che l’essere (per sua natura statico e spettatore) è divenuto altro (nel breve spazio di una quarantina di minuti) grazie al rito laico al quale ha partecipato.
Tutt’altro che una semplice azione scenica che lo spettatore può osservare distaccato, l’esperienza condivisa ha coinvolto ognuno e tutti – come individui e comunità – raccolti, in una sala spoglia, per vivere il teatro e non per assistere semplicemente a uno spettacolo.
°*°*°
Nella stessa serata, My Exile is in my Head – ispirato a The Man Died di Wole Soyinka – concezione, coreografia e performance di Qudus Onikeku.
Una voce fuori campo precede la musica che, a sua volta, invita il gesto del danzatore. La figura minuta che appare, nella sua solitudine – sul grande palco bianco – dà subito la sensazione e la misura dell’estremo isolamento dell’individuo, sradicato dalle proprie radici. Il controllo del corpo è da virtuoso ma Onikeku suona il proprio “strumento” senza fare mostra di abilità (tranne in un paio di acrobazie, fuori luogo, che spezzano l’atmosfera), per “cavarne” movimenti ancestrali, rimandi alla tradizione africana contaminata, volontariamente, con le tecniche che il danzatore nigeriano ha appreso in Francia (suo Paese d’adozione).
Un’esplorazione delle note più intime del sentimento fino al dolcissimo canto finale (eseguito dal vivo dallo stesso Onikeku).
Poco convincente, al contrario, il contrappunto recitato da Ese Brume, a tratti perfino irritante nel suo voler spiegare l’ovvio, e la cui presenza in scena non aggiunge quanto toglie in essenzialità e forza espressiva.
Il corpo resta il protagonista di queste giornate di Festival. Il corpo come mezzo espressivo, linguaggio autonomo e maturo, fonte di emozioni.
Pubblicato (con modifiche) su Artalks.net, il 19 aprile 2016
In copertina: Qudus Onikeku. Foto di Isabela Figueiredo (gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Festival).