Quando il libro si chiude
di Simona Maria Frigerio
Dall’alto del tempio buddhista che sorge di fronte a Khao Takiab – e da positivamente atea – rileggo quella Bustina di Minerva – scritta in tempi non sospetti, ossia nel lontano ‘97 – in cui Umberto Eco, con argutezza e autoironia, insegnava al suo discepolo come allontanarsi dal mondo con serenità. Il segreto del buon morire sarebbe consistito nel considerare il mondo pieno di “coglioni”. Sinceramente, dall’alto di questa collina, guardando alle figurine prese dalla frenesia nevrotica e inquinante di Hua Hin – la Rimini, o la Viareggio, della Thailandia – il sorriso spunta inevitabilmente e beffardo. Però, noi che per qualche anno (forse) restiamo, non possiamo che sentirci un po’ meno intelligenti perché è venuta meno proprio la sua voce. Di semiologo, intellettuale, critico ma, soprattutto, scrittore – che ha dato un senso immanente al termine forse desueto di erudito.
Personalmente (e permettetemi la digressione dato che ai titoli e alle benemerenze penseranno i necrologi ufficiali) me ne resi conto quando, come ogni studente di lettere (in tempi in cui quella, come altre, facoltà aveva ancora lo scopo di aprire la mente invece di chiuderla intorno a ombelichi tecnicistici) mi imbattei nella Coena Cypriani. Un Berlinguer o una Moratti forse si sarebbe chiesto che cosa se ne sarebbe fatto un futuro laureato di una simile conoscenza. Inutile quanto un programma di studi non finalizzato a indirizzare a una precisa professione – o, meglio ancora, a un singolo settore. Eco, al contrario, integrò quel testo di facezie conviviali nella visione di Adso da Melk, dimostrando come l’interpolazione dei testi possa creare giochi di senso tra lettore e autore, e nuove aperture di senso per chi pur non conoscendo la fonte si ingegni a scoprirla. Nulla è mai inutile e il sapere è tutto – e, soprattutto, fonte per quella critica lucida che i potenti temono più della spada.
Se Il nome della rosa per molti è un thriller, per alcuni è altresì un gioco enigmistico dove si deve scoprire il rimando a cui Eco attinge; mentre per altri è un affresco storico o, ancora, una feroce denuncia contro l’ignoranza della fede (amabilmente celata tra le pieghe del romanzo, laddove un Dawkins la inscrive nei suoi ponderosi saggi). Multilinguismo e pluralità di livelli di lettura vi convivono felicemente, tanto da non accorgersi della complessità di base della sua struttura – e questa è una tra le conferme, se ce ne fosse bisogno, dell’eccellenza di Eco come scrittore.
Negli anni la labirintica mente ha elaborato intrighi massonici, con la profusione delle zone di un nautilus, nei quali perdersi irrimediabilmente in compagnia del suo protagonista in cerca di un pendolo. Ha percorso le valli del picaresco con la stessa ironia di Tom Jones e l’inconsistenza pindarica di Tristram Shandy. Mentre la vita di Baudolino – come quella di un novello Boccadoro – si srotolava in terre straniere dove non contava davvero la meta quanto il viaggio di omerica memoria. E si arrestava con un finale icasticamente laconico sulle rive ottocentesche percorse da moti risorgimentali e agenti segreti sulle orme di Conrad.
Leggere i suoi libri è percorrere le vie della letteratura, della storia e del pensiero filosofico occidentale senza nemmeno accorgersene. Universi di senso celati nelle pieghe del genere, dal thriller al romanzo di formazione. Questa volta, però, si è chiuso il libro per sempre e il foglio abbandonato sulla scrivania o sulla homepage del computer resterà bianco. Ad altri, domani, il compito di vergarlo.
Pubblicato su Artalks.net, il 22 febbraio 2016
In copertina: Foto di Gerhard G. da Pixabay.