Al Francesco di Bartolo di Buti va in scena la Terza guerra mondiale: sarà solo un incubo?
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Le folle riempiono gli Champs–Élysées, il ponte di Brooklyn, Piccadilly Circus e i Fori Imperiali romani. Sembra che intere popolazioni prendano parte a un rito comunitario senza frontiere o divisioni politiche. Quasi partecipassero alla maratona di New York o al rituale laico dello shopping del sabato pomeriggio. Ma se quell’assembramento ludico avesse un altro scopo, cosa accadrebbe?
Lo chiedono gli interpreti – Matteo Angius, Sara Bonaventura e Claudio Cirri – agli spettatori che, presi in contropiede dal riaccendersi delle luci, si trovano a dover rispondere – tra l’imbarazzato e il divertito – a una specie di indagine sul valore della vita, propria, altrui, del genere umano o tout court.
Le risposte non sono sempre immediate, si prende tempo, si tenta di essere altruisti – almeno a parole – persino nobili d’animo. Ma spesso l’abilità degli attori/inquisitori svela il pensiero recondito, il pregiudizio, l’impossibilità a essere totalmente sinceri almeno in pubblico.
D’improvviso il registro cambia. Il sergente alla Full Metal Jacket, che farà impazzire Palla di lardo, ci arringa con toni apocalittici. Le manovre militari prendono il posto delle trattative: la guerra è scoppiata. Non è più tempo per il dialogo, gli incontri diplomatici, o per scendere in piazza chiedendo la pace. Bisogna salvare i nostri uomini prigionieri – come nella peggiore tradizione a stelle e strisce: perché si muoia tutti pur di salvare il soldato Ryan. Non c’è più tempo per riflettere o abbandonarsi a gesti altruistici: la guerra incalza e con l’eccidio, gli orrori. Il polpettone di genere si mescola alla parodia. La Patria con la P maiuscola assurge a piovra tentacolare, il nemico è sempre dis o inumano; ogni giornalista, medico o infermiere, insegnante o volontario deve prendere posizione e deve stare dalla parte giusta. Non c’è spazio per il dubbio, la voce dissenziente va zittita. La verità, la giustizia e la democrazia sono sulla punta dei nostri AK-47 e tutto deve concorrere a fomentare la retorica della guerra. Dai valori religiosi (della nostra fede, naturalmente) all’esportazione della democrazia, dalla liberazione dei popoli dalla dittatura a quella dell’economia dai lacciuoli di uno stato socialista. Il pensiero unico deve imporsi – senza se e senza ma.
Ma in questa Terza guerra mondiale, a differenza delle tante che stanno infiammando il nostro pianeta in questo momento, le radiazioni sono ovunque. Dove nascondersi? Non c’è rifugio sufficientemente grande, o muro, frontiera, confine che possa salvarci.
Eppure the day after arriva. Il conflitto è finito, la vittoria assicurata. Su sette miliardi di persone, ne sono morte sei. Anche i giovanissimi sono rimasti coinvolti, il dramma dei bambini soldato (che fa da contrappeso a quello delle bambine prostitute di guerra) è l’ultimo lascito di un immane disastro, che si riflette nel moncherino della Tour Eiffel, nel braccio di ponte amputato, nell’edificio abortito.
È tempo di festeggiare: la vita ricomincia tra le macerie umane e naturali. I teatri si riaprono e la retorica della vittoria assurge a toni ben più aberranti di quella del dolore o della guerra. Si ribadisce la giustizia della carneficina, dello spreco umano, della distruzione evidente. Si inventano giardini fertilizzati dai cadaveri: l’humus della terra, la rinascita a nuova vita sulle spoglie degli sconfitti, dei morti – alleati o nemici, a questo punto finalmente non conta più. I propositi per il futuro sembrano idilliaci, ma i bambini hanno in sé il germe nefasto della sopraffazione, della violenza, di una vittoria conquistata a prezzo di miliardi di vite che si sublima nei versi di una poesiola mefitica.
La cultura non è che un amalgama di retorica e luoghi comuni. Se prima della guerra non era stata in grado di levarsi come voce contraria per impedirla, adesso riflette l’ideologia del vincitore con il medesimo pedissequo, impunito servilismo.
Spettacolo giocato su più registri, firmato da Valters Sīlis e Teatro Sotterraneo. L’eccellente colonna sonora sottolinea le fasi dell’ecatombe con l’ausilio di un ottimo impianto luci e una scenografia tanto essenziale quanto funzionale. Gli attori si cimentano in più ruoli, passando dal grottesco al provocatorio, dal comico al satirico, riuscendo a dare continuità, ritmo e forza a uno spettacolo coinvolgente fino alla… fine.
Pubblicato su Artalks.net, il 29 ottobre 2015
In copertina:
Le folle riempiono gli Champs–Élysées, il ponte di Brooklyn, Piccadilly Circus e i Fori Imperiali romani. Sembra che intere popolazioni prendano parte a un rito comunitario senza frontiere o divisioni politiche. Quasi partecipassero alla maratona di New York o al rituale laico dello shopping del sabato pomeriggio. Ma se quell’assembramento ludico avesse un altro scopo, cosa accadrebbe?
Lo chiedono gli interpreti – Matteo Angius, Sara Bonaventura e Claudio Cirri – agli spettatori che, presi in contropiede dal riaccendersi delle luci, si trovano a dover rispondere – tra l’imbarazzato e il divertito – a una specie di indagine sul valore della vita, propria, altrui, del genere umano o tout court.
Le risposte non sono sempre immediate, si prende tempo, si tenta di essere altruisti – almeno a parole – persino nobili d’animo. Ma spesso l’abilità degli attori/inquisitori svela il pensiero recondito, il pregiudizio, l’impossibilità a essere totalmente sinceri almeno in pubblico.
D’improvviso il registro cambia. Il sergente alla Full Metal Jacket, che farà impazzire Palla di lardo, ci arringa con toni apocalittici. Le manovre militari prendono il posto delle trattative: la guerra è scoppiata. Non è più tempo per il dialogo, gli incontri diplomatici, o per scendere in piazza chiedendo la pace. Bisogna salvare i nostri uomini prigionieri – come nella peggiore tradizione a stelle e strisce: perché si muoia tutti pur di salvare il soldato Ryan. Non c’è più tempo per riflettere o abbandonarsi a gesti altruistici: la guerra incalza e con l’eccidio, gli orrori. Il polpettone di genere si mescola alla parodia. La Patria con la P maiuscola assurge a piovra tentacolare, il nemico è sempre dis o inumano; ogni giornalista, medico o infermiere, insegnante o volontario deve prendere posizione e deve stare dalla parte giusta. Non c’è spazio per il dubbio, la voce dissenziente va zittita. La verità, la giustizia e la democrazia sono sulla punta dei nostri AK-47 e tutto deve concorrere a fomentare la retorica della guerra. Dai valori religiosi (della nostra fede, naturalmente) all’esportazione della democrazia, dalla liberazione dei popoli dalla dittatura a quella dell’economia dai lacciuoli di uno stato socialista. Il pensiero unico deve imporsi – senza se e senza ma.
Ma in questa Terza guerra mondiale, a differenza delle tante che stanno infiammando il nostro pianeta in questo momento, le radiazioni sono ovunque. Dove nascondersi? Non c’è rifugio sufficientemente grande, o muro, frontiera, confine che possa salvarci.
Eppure the day after arriva. Il conflitto è finito, la vittoria assicurata. Su sette miliardi di persone, ne sono morte sei. Anche i giovanissimi sono rimasti coinvolti, il dramma dei bambini soldato (che fa da contrappeso a quello delle bambine prostitute di guerra) è l’ultimo lascito di un immane disastro, che si riflette nel moncherino della Tour Eiffel, nel braccio di ponte amputato, nell’edificio abortito.
È tempo di festeggiare: la vita ricomincia tra le macerie umane e naturali. I teatri si riaprono e la retorica della vittoria assurge a toni ben più aberranti di quella del dolore o della guerra. Si ribadisce la giustizia della carneficina, dello spreco umano, della distruzione evidente. Si inventano giardini fertilizzati dai cadaveri: l’humus della terra, la rinascita a nuova vita sulle spoglie degli sconfitti, dei morti – alleati o nemici, a questo punto finalmente non conta più. I propositi per il futuro sembrano idilliaci, ma i bambini hanno in sé il germe nefasto della sopraffazione, della violenza, di una vittoria conquistata a prezzo di miliardi di vite che si sublima nei versi di una poesiola mefitica.
La cultura non è che un amalgama di retorica e luoghi comuni. Se prima della guerra non era stata in grado di levarsi come voce contraria per impedirla, adesso riflette l’ideologia del vincitore con il medesimo pedissequo, impunito servilismo.
Spettacolo giocato su più registri, firmato da Valters Sīlis e Teatro Sotterraneo. L’eccellente colonna sonora sottolinea le fasi dell’ecatombe con l’ausilio di un ottimo impianto luci e una scenografia tanto essenziale quanto funzionale. Gli attori si cimentano in più ruoli, passando dal grottesco al provocatorio, dal comico al satirico, riuscendo a dare continuità, ritmo e forza a uno spettacolo coinvolgente fino alla… fine.
Pubblicato su Artalks.net, il 29 ottobre 2015
In copertina: Foto di Łukasz Dyłka da Pixabay.