Tre giornate dal Festival che illumina Torino
di Luciano Uggè
Giovedì 30 luglio, al Teatro Astra, sono di scena Kenji Ouellet con la performance sensoriale Le Sacre du Printemps: a haptic rite; e il teatro/danza di denuncia, firmato da Maria Clara Villa Lobos, per la performance Mas-sacre.
«Come state di salute? Problemi con la schiena? Il collo?». Le domande fioccano tra lo stupore dei partecipanti a Le sacre du printemps: a haptic rite, ormai spogli di tutti gli ammennicoli, calzature comprese.
Dopo essere stati bendati, si è guidati – con precisi consigli su come muoversi – sino a una zona buia (che si saprà essere, al termine della performance, la sala prove del Teatro Astra). Si tentenna, ormai perso l’orientamento. Accomodati su un materassino, si aspettano gli eventi. I sensi sono allertati finché, improvvisamente, si viene sfiorati, toccati, accarezzati. E d’un tratto, arriva anche la musica. Gli occhi percepiscono un chiarore morbido che contrasta con le punzecchiature e i colpetti che, al ritmo de La Sagra della Primavera, stuzzicano i corpi. L’incalzare delle note di Stravinskij – perfettamente riconoscibili con le loro interruzioni repentine – popola l’ambiente di immagini personali, finché sembra che sia sempre più difficile muoversi mentre i corpi si urtano, come su un tram nell’ora di punta. Poi, d’improvviso, è di nuovo la calma a regnare sovrana: ci si adagia, il respiro torna normale. Ma di colpo si è sbalzati in avanti, come se l’immaginario mezzo di trasporto avesse frenato bruscamente.
Le emozioni si susseguono, alternandosi, durante l’intera performance. Premuti, cullati dal suono della musica o costretti a muovere le gambe, come si fosse sospesi nel vuoto. Una luce rossa, calda, avvolge ogni fibra; i punti di contatto aumentano: è quasi un abbraccio. I sensi si rilassano. Sfiorati da un bacio ci si arena su rive inesplorate, la musica si placa e, improvvisamente, il buio avvolge tutto. Sensazioni di paura, totale spaesamento – per un tempo breve eppure all’apparenza lunghissimo. Le note si spengono, torna la luce: la performance è finita.
Alzarsi e ricominciare a muoversi non è facile. L’orientamento è scomparso, l’equilibrio è precario. Si è vissuto un momento, della durata di quasi venti minuti, che si può definire del tutto particolare. Un’esperienza soprattutto tattile ma che, in tutte le sue forme, ha stimolato umori, pensieri, sensazioni, angosce e, finalmente, un nuovo senso di libertà. Il tempo è trascorso velocemente in questo bel viaggio che profuma di teatro e di vita.
Dalla sala prove, dove si è svolto Le Sacre du Printemps: a haptic rite, ci si sposta in teatro per assistere a Mas-sacre. La musica di sottofondo e che dà il ritmo allo spettacolo di Maria Clara Villa Lobos, però, non cambia: riconosciamo le note de La Sagra della Primavera. L’inizio è accattivante ma si presagisce il peggio per il pulcino appena nato. Cinema e teatro si intrecciano, vanno di pari passo, i performer (Barthélémy Manias, Coral Ortega, Alberto Velasco e Clément Thirion) si muovono come operai in fabbrica. Solo brevi pause per rilassare i muscoli e poi il ritmo frenetico e barbaro riprende.
Costretti, stipati, ormonati per un unico scopo: alimentare. I polli in batteria come gli operai alla catena di montaggio, che obbliga agli stessi movimenti all’infinito – sino al disfacimento totale di uomini e bestie. Le sequenze video mostrano la fine dei polli a un ritmo sempre più incalzante: puliti, tagliati, impacchettati con precisione meccanica per l’invio alla distribuzione.
Nell’intervallo tra le due parti, in cui è suddiviso lo spettacolo, si proiettano brevi spot patinati che invitano al banchetto. Gli spazi si ampliano: il consumismo arriva ovunque! Perfino su una spiaggia in stile caraibico. Ma il lavoro deve riprendere. E in diretta.
Natura morta: dal particolare al primo piano. Inizia una danza macabra a due, tra il pollo morto e la performer, che non si sa bene dove collocare all’interno del discorso proposto. Presto, però, la catena deve riprendere a girare, a triturare – insaziabile. Ma insaziabile è lei o siamo noi, sembra chiedere l’autrice. La performance dal vivo sostituisce l’immagine video. Il pranzo è servito: il ketchup o il sangue (lo stesso ripulito all’inizio dello spettacolo) irrompe sulla scena. L’esecuzione si consuma a vista: forse è troppo.
Il ritmo si spezza: si rompono barriere, mutano i rapporti fino all’eccesso opposto, sostituendo o riversando bisogni e mancanze umanissimi su animali più o meno consenzienti – o viceversa. Può essere semplicemente l’amore, la soluzione a un problema come l’alimentazione di una Terra sovrappopolata e, in parte, schiava dei consumi? La risposta suona un po’ troppo idilliaca.
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Un unico spettacolo nella giornata di venerdì 31 luglio, dedicata alla danza. Protagonisti Jean-Baptiste André e Julia Christ nel passo a due Pleurage et Scintillement – sempre presso il Teatro Astra di Torino.
Si uccide la solitudine con l’alcool, banali oggetti di arredamento si trasformano in ostacoli insormontabili, è difficile persino restare in piedi. Ma, nonostante tutto, barcollando stancamente, si continua a muoversi in questo universo ai margini e, quando meno uno se l’aspetta, può ancora accadere l’imprevisto. Complice la pioggia, una figura femminile si materializza all’interno del bar, fradicia e affannata. La donna si asciuga alla meglio, pensando di essere sola. Per l’uomo raggiungerla è un’impresa titanica: tutto ciò che si frappone fra loro sembra animato dal desiderio di impedire l’incontro.
Tra l’immaginario circense e la prova da ginnasta, Pleurage et Scintillement è il racconto di due corpi che si perdono e si ritrovano ai confini della notte, confessano i propri desideri pensando di non essere ascoltati o capiti: lei, utilizzando alcuni versi di Tracy Chapman; lui, un brano di Elvis Presley.
L’imprevisto ha rotto la monotonia di una vita senza speranza, ha riempito due solitudini, colmato il vuoto. Stranamente, tutto si fa più incerto così come i primi tentativi di danza. Le note de La bambola di Patty Pravo, pian piano, coinvolgono la donna in questo abbozzo di dialogo amoroso. Il bancone movimenta la scena, spostato a più prese tra le sedie abbandonate da una clientela solo immaginaria. Si moltiplicano i modi per godere di questo fugace incontro. La gestualità si fa più disinibita, il ritmo della danza diventa vieppiù sincopato. I due performer eseguono un passo a due sul bancone stesso, sfoggiando movimenti sempre più complessi. I corpi si avvicinano, sembrano specchiarsi, sono usati come supporto: danza o esercizio ginnico – difficile giudicarlo ma l’emozione per una decina di minuti si raffredda.
L’amplesso forse ha avuto luogo. Dal bancone si passa al pavimento. La scena si allarga nuovamente e dall’intimità si passa alle incomprensioni. I volti che si accarezzano e si toccano o si scontrano sostituiscono le prese di mano. Il conflitto interiore è reso nuovamente in modo efficace e credibile. Quell’accendino tanto cercato è ormai inutile. Rendersi conto dell’occasione mancata, in un semplice gesto come fumarsi una sigaretta, è forse la conclusione naturale della performance. Sembra poco utile ai fini del racconto quel rimettere a posto il bar, quell’epilogo che rimarca l’attesa per un eventuale futuro insieme.
Apprezzabile e convincente la regia, nella prima parte dello spettacolo, solleva qualche dubbio proprio nel finale. Inoltre, sebbene la mimica dei performer supplisca ottimamente alla mancanza di parola, le difficoltà per chi non conosce bene le lingue (francese e inglese, soprattutto) di associare immediatamente i testi delle canzoni a quanto accade sulla scena è evidente e, a volte, impedisce di godere appieno dello spettacolo.
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Finale di Festival, sabato 1° agosto, nella prestigiosa sede del GAM, a Rivoli, con Origami (progetto e ideazione di Satchie Noro e Silvain Ohl, costruzioni di Silvain Ohl ed Eric Noël) e al Teatro Astra di Torino con il nuovo spettacolo di e con Sol Picó, One – Hit Wonders.
Lo spettacolo Origami – maturato durante un viaggio fatto dalla performer su una nave portacontainer – si svolge all’aperto, nei cortili del Castello di Rivoli. La curiosità è palpabile tra il pubblico per questa imponente costruzione. Il cassone del container si apre e alcune parti si sollevano nell’elaborazione di sempre nuovi spazi atti alla perfomance.
Dopo qualche minuto compare Satchie Noro. I suoi movimenti sono ieratici mentre i cavi si tendono. L’artista – appesa nel vuoto e senza protezione – ha poche possibilità di movimento che, però, sono sfruttate al meglio.
A container dischiuso, gli esercizi si semplificano: succedendosi una serie di figure astratte e statiche che, di volta in volta, la performer mette in mostra – abbarbicata alla parete esterna del cassone. Noro, spesso, scompare alla vista per ricomparire sdraiata su un bordo; oppure, quasi nel finale, sale sino alla parte più alta della struttura, dove impugna un’ascia con la quale colpisce il piano d’appoggio. Attimi di perplessità e preoccupazione tra il pubblico quando, facendo roteare l’ascia senza nessun legame di sicurezza, ci si può solo augurare che lo strumento non le sfugga di mano.
Una messa in scena imponente ma che tale rimane, non assumendo mai la leggerezza di un origami. I movimenti limitati e molto spezzettati nel tempo non riescono a coinvolgere più di tanto lo spettatore. Prevale la preoccupazione per un’esibizione ai limiti delle capacità fisiche, certamente originale ma che, nella parte centrale, assomiglia più a un’arrampicata che a una danza. Molto scenografico. Forse si dovrebbe prestare maggiore attenzione alla sicurezza dell’artista e del pubblico.
In serata, l’ultimo spettacolo è in scena al Teatro Astra. In un fine settimana dedicato alla danza: l’attesa per l’esibizione di Sol Picó è grande. E le speranze non vanno deluse.
Una presentazione ironica e ricca di pathos, la sua. Il racconto di una vita da danzatrice che non vuole prendere in considerazione l’abbandono delle scene.
In questa cavalcata nel tempo, ben motivata dal racconto, si va dagli “spinosi” inizi al coinvolgimento di tre persone del pubblico (la cui preparazione è ironicamente autodenunciata); dagli esperimenti con gli arti inferiori ancorati a un supporto che permette di aggirare la forza di gravità all’inevitabile lotta contro le poltrone di un aereo che, come la vita della performer, sta lentamente planando per arrivare all’ineluttabile fine – che ci accomuna tutti.
Picó danza, bendata, tra vasetti di cactus; scia su improbabili montagne; fallisce – mandando però un chiaro messaggio anche simbolico: così come si vince tutti insieme, anche il fallimento deve accomunarci.
Le parti recitate in castigliano e catalano – interpretabili grazie alle didascalie – sono ricche di rimandi ai nostri giorni e alle tormentate vicende dei Paesi del Mediterraneo.
One – Hit Wonders si rivela uno spettacolo veloce così come i passi di danza, a solo, a due o di gruppo, che si susseguono, legati dalla personalità eclettica e autoironica della performer. Il testo e la messinscena coinvolgono: si partecipa al rifiuto dell’abbandono delle scene, si prende le parti di chi è certo di avere ancora molto da dare – nonostante l’ora di tirare le somme di una vita dedicata alla danza inesorabilmente si avvicini. Al termine della serata resta la consapevolezza che la danza è una magnifica ossessione, che va coltivata con un duro e costante lavoro per poter esprimere sentimenti e pensieri che ci accomunano tutti.
One – Hit Wonders è il racconto autoironico di un’esistenza vissuta intensamente, ma costantemente rivolta all’esterno, all’altro da sé, alla società con le sue contraddizioni – temi, questi, che diventano parte integrante dello spettacolo. L’amore per la propria arte è reso palpabile ed emoziona anche chi non abbia mai infilato un paio di scarpette. Si assiste con tenerezza ai tentativi di continuarlo, si compartecipa questa necessità. Ma non c’è un attimo di pausa: il ritmo e il tempo incalzano. E la voce off del pilota avvisa che siamo arrivati alla fine: è ora di uscire di scena e il sipario cala su un’esibizione sublime e sulla chiusura dell’edizione 2015 di Teatro a Corte.
Pubblicato in tre parti (con modifiche) su Artlaks.net, il 31 luglio, 1° e 3 agosto 2015
In copertina: Sol Picó in One – Hit Wonders (foto ©Rojobarcelona, gentilmente fornita dall’Ufficio stampa del Festival)