Alla Galleria Passaggi di Pisa la personale di Darren Harvey-Regan, fotografo inglese in delicato equilibrio tra astrazione e matericità
di Simona Maria Frigerio
Incontrare un fotografo o, meglio, un artista come Darren Harvey-Regan è, innanzi tutto, un piacere a livello umano, data la sua spontaneità, l’entusiasmo per il suo lavoro e la voglia di comunicarlo senza ampollose autocelebrazioni ma con sincero interesse verso il proprio interlocutore, in una sorta di dialogo che spieghi e comprenda – così come le sue opere sempre sul filo tra l’astrazione concettuale e la compartecipazione emotiva.
In mostra 17 opere che, sebbene non siano molte, ripercorrono con intelligenza il percorso dell’artista negli ultimi tempi e la sua evoluzione da fotografo tout-court ad artista figurativo nel senso più completo del termine, insieme scultore, disegnatore, fotografo e pittore.
I corsi e ricorsi di Harvey-Regan sono molteplici. Se tutte le rocce ritratte sono “erratics” (come da titolo della mostra), la serie Exposure mostra degli scatti in bianco e nero che esaltano la tridimensionalità dei massicci egiziani, scolpiti dal vento, solidi nella loro matericità eppure fluttuanti in quel loro rimandare, come segno a significati altri, perché se è il cervello e non l’occhio quello che vede, allora la mente del visitatore può sentirsi libera – seguendo affascinata quelle linee sinuose o impervie – di intravedere, al di là del massiccio, volti e animali (come capita, a volte, salendo a Capo Orso, in Sardegna, o inerpicandosi tra le Painted Cliffs di Maria Island, in Tasmania).
Mentre, nella serie Wrest, il bisogno di Harvey-Regan di tridimensionalità e il suo tentativo (riuscito) di superare il limite delle due dimensioni della fotografia (ma anche della pittura), trova espressione in una serie di rocce bianche, provenienti dal sud dell’Inghilterra, che l’artista prima scolpisce, lavorando quindi la materia – trasformando la forma naturale in manufatto artistico – che poi fotografa con una visione concettuale della forma espressiva che sta utilizzando (ossia la pellicola che poi diventa carta stampata) tale da esaltare, nel bianco su bianco (dove non esiste, in ogni caso, una monocromia alla Rothko quanto un’infinita gamma di variazioni e sfumature alla Melotti) l’illusione di tridimensionalità e la continuità lineare tra roccia e piedistallo o tra elemento fotografato e supporto, in un connubio di fotografia e trasformazione concettuale e fisica del secondo che si avvicina alla pittura e al collage.
Se è lo stesso artista a raccontarci di come la sua ricerca lo spinga continuamente: «a muoversi tra le varie forme artistiche, nella ricerca di un’instabilità nella stabilità o di matericità nell’astrazione», noi non possiamo che aggiungere che il suo intento è perfettamente riuscito osservando quella roccia che, come un tavolo di Cézanne, è perno instabile della composizione e suggestione coloristica che unisce e separa volumi e forme.
E in un discorso che, forse, in futuro, potrebbe anche giungere a una ricerca cubista che oltrepassi in toto la realtà della nuvola, del masso o della roccia stessa, per restituire la forma pura, avulsa dall’espressione, in un’assenza di peso assoluta, ravvisiamo già – in alcune opere che indulgono felicemente a forme astratte (sebbene eminentemente bidimensionali) – rimandi sintetici alla linearità di un Mondrian.
Una piccola mostra da non perdere.
Pubblicato su Artalks.net, il 20 aprile 2015
In copertina: Pisa, sede della Galleria Passaggi. Foto di Tommaso Da Ros da Pixabay.