Quando conta di più il non detto
di Simona Maria Frigerio e Luciano Uggè
Nella Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Teatri di Confine propone al Francesco di Bartolo di Buti, una performance firmata da Renata Palminiello.
Un poker di attrici, sensibili e in parte (Camilla Bonacchi, Renata Palminiello, Maria Grazia Mandruzzato, Carolina Cangini e Petra Valentini), per uno spettacolo che si allontana dal testo originale (J’étais dans ma maison et j’attendais que la pluie vienne) così da donare alle parole di Jean-Luc Lagarce anche sensi altri e, curiosamente, molto vicini agli scopi per i quali è stata indetta la Giornata del 25 novembre.
In La stanza là in alto, le cinque donne inconsistenti, evanescenti di Lagarce – che sembrano quasi invisibili e interscambiabili nella loro impossibilità di vivere, nel loro esistere sospese su un punto in un non-spazio, in una dimensione atemporale – ritrovano connotati più precisi: tre sorelle, una madre e una zia o forse una nonna, ognuna ben delineata da paure proprie e mai condivise, fino a oggi. Anche gli abiti di scena differenziano i personaggi uno dall’altro e il letto del moribondo è scomparso. Al suo posto – quasi a rendere la presenza dell’unico uomo, del fratello, ancora più inquietante – solamente la parola, che evoca mirabilmente la figura o, meglio, l’idea della figura maschile con la potenza dell’immaginazione – quell’immaginazione che fin dai tempi di Shakespeare può ricostruire interi universi se ben sollecitata.
I tempi, al contrario, restano cechoviani. Il senso di un universo femminile claustrofobico incentrato su una figura maschile assente continua a rimandare alla Spagna rurale di Bernarda Alba. La lingua di Lagarce si esprime in tutta la sua delicatezza.
Per quanto riguarda la messinscena, la scelta di costruire in palcoscenico un interno posizionando semplicemente degli infissi (senza porte) a formare delle diagonali e dei punti di fuga, permettendo alle cinque attrici di muoversi mostrando spesso la schiena, il profilo o scorci di figura – in breve una sfaccettatura anche fisica dei cinque personaggi dei quali cogliamo sprazzi di luce, così come ricostruiamo mezze verità dai frammenti di discorso – è molto appropriata. Bella anche l’idea di segnare con lo scotch di carta, a scena aperta, il palco – così da dare allo spettatore, immediatamente, l’idea di uno spazio chiuso e da permettergli di visualizzare nella propria mente le pareti della casa.
Dietro questa lunga, spasmodica, infinita attesa, anche altre rivelazioni – come scrivevamo, in sintonia con la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. La violenza del padre, innanzi tutto – forse solo morale o forse anche fisica, poco conta. Una violenza ancora più evidente nei dinieghi della madre, nei silenzi delle figlie maggiori che, d’un tratto, di fronte ai ricordi della sorella più piccola, non possono continuare a tacere. E una violenza più sottile, psicologica, che relega queste cinque donne in uno spazio angusto, una prigionia autoinflitta, che le costringe a rinunciare alla vita in assenza del maschio di casa. L’attesa come sospensione di vita per un fine pena mai.
Applausi meritati.
Pubblicato (con minime modifiche) su Artalks.net, il 27 novembre 2014
In copertina: La stanza là in alto, regia di Renata Palminiello (foto gentilmente fornita dall’Ufficio stampa).